Conosci una persona. Ci parli (chatti/mandi SMS) per un po’ di tempo, diciamo quel tanto giusto per dire a te stess* “ma sì, diamogli/le la sacrosanta opportunità di entrare nella mia vita!“, poi…
Poi, eccola. Arriva la fatidica domanda che ogni ( o quasi) persona fa ad un’altra, solo per capire meglio l’andamento della sua vita o per avvicinarsi ad un livello più sensibile di intimità (credo): “Sei felice?”
Quando mi pongono una questione del genere, mi sento pietrificare dentro ed assomiglio in maniera impressionante ad un opossum che adotta la tanatosi per sfuggire all’indecente predatore inquisitore travestito da essere umano curioso.
“Ed ora cosa cacchio rispondo?”
Essendo la domanda postami una yes/no question, potrei sfoderare il mio miglior inglese, esibendo un emozionante “oh yes, Man!“, tirando avanti come nulla fosse.
Ma se dici “no“, allora succede che il tuo interlocutore/inquisitore si sente autorizzato a farti domande di ogni genere per scoprire la causa della tua “ipotetica” infelicità.
Ma se io, per esempio, non sapessi esattamente come classificare la felicità?
Se dicessi “Ma… Per me la felicità è un attimo” o ” è la sostanza di tutte le cose che mi rendono ricca anche solo perché esistono” o “la felicità è un concetto difficile da sviscerare, mi è impossibile rispondere con yes/no“, temo sforerei in un trattato filosofico ontologico nel quale inserire, a sostegno delle mie strampalate tesi, autori vari ( “Sull’essere e sul non essere” ultima fatica filosofico-umanistica di Nero Come La Notte -ammettiamolo, suona proprio fiQo).
Ma la risposta potrebbe anche essere “Discutiamone di fronte ad una tazza di caffè, che ne dici?”
