“Lunchbox” è un film del 2013, ambientato in un’India recente, successiva o subitaneamente contemporanea al 1995, data in cui Bombay è divenuta Mumbai, luogo in cui la vicenda prende vita.
I personaggi principali sono tre: Ila, che incarna la tipica madre, moglie e casalinga indiana, ligia al proprio dovere di angelo del focolare, Sajaan, che lavora nell’ufficio contabilità di una importante compagnia, e Shaik, un orfano senza arte né parte che verrà affiancato sul lavoro come apprendista a Sajaan.
La vicenda fa perno su una falla del sistema di consegna del cibo, in particolare quello recapitato agli uffici durante le pause pranzo, che a Mumbai è affidato ai dabbawallah, “fattorini”che si muovono su bici in mezzo all’ intenso traffico cittadino e che sono spesso analfabeti. Nonostante questo piccolo neo, la loro conoscenza complessiva delle strade gli permette di limitare gli sbagli nella distribuzione dei viveri.
Sarà proprio per un errore di consegna che Ila “incontrerà” Sajaan.
Tra loro inizierà uno scambio di piccoli biglietti, attraverso i quali i due si narreranno l’un l’altra le proprie perplessità sulla vita. Il cibo diviene non solo un mezzo per nutrire il corpo, ma soprattutto per sfamare l’anima.
Sajaan durante il momento del pranzo ricerca un’intima solitudine per godere e del pasto e delle parole di Ila, per quanto poche, ma viene spesso interrotto dall’apprendista.
Ad un certo punto i due uomini si ritrovano a pranzare allo stesso tavolo. Il protagonista invita il giovane ad assaggiare le portate ed il ragazzo, favorevolmente colpito dalla bontà del cibo, chiede che venga ordinato anche per lui un pranzo del genere per i giorni a venire, ma Sajaan, mentendo, asserisce che a breve il ristorante che fornisce lui il quotidiano pasto verrà chiuso, perché in India, anche di fronte ad un lavoro svolto ottimamente, non viene riconosciuto “il merito”.
L’ovvia critica al sistema politico Indiano, per quanto all’interno del contesto appaia come una debole lamentela, innesca nello spettatore un senso di disagio e di riconoscimento immediato nei due protagonisti: quante volte al ristorante o al bar o a casa, di fronte ad un piatto caldo, ci si è ritrovati a maledire l’inefficienza dello Stato? Penso che persino ora, da qualche parte, qualcuno stia argomentando in merito.
Inoltre la critica è avvalorata dalle immagini proposte, che risultano quasi uno schiaffo morale e visivo: le strade, le costruzioni e le persone vengono rappresentate nella loro crudezza e verità. Il sudiciume e il caos urbani si riflettono nella vita quotidiana, anzi ne fanno pienamente parte.
Nonostante i leit motiv di questo film siano in un certo senso la quotidianità, l’amore e l’intimità personale, viene introdotta anche una tematica a me molto cara, che è quella della condizione femminile all’interno della società indiana.
Anche se le figure femminili all’interno della pellicola sono ben presenti, la loro essenza è inscritta in quello stigma sociale che pervade la struttura della società complessa dai suoi albori.
L’opposizione, contrastata dalla rassegnazione riguardo l’archetipo di donna-madre, donna-casalinga e donna-sottomessa prende voce gradatamente sino a raggiungere il proprio acme in una scena che vede come protagoniste Ila, sua figlia e sua madre di fronte al letto del padre malato.
Ila, accortasi della precaria situazione economica in cui versa la sua famiglia d’origine, si propone di prestare/regalare una certa quantità di soldi per le cure del padre; la madre rifiuta dicendo << Siamo donne, ti sembra bello chiedere continuamente i soldi? >> sottolineando che se il padre malato avesse scoperto tal fatta, l’umiliazione derivata avrebbe in un certo modo macchiato l’onore familiare.
Lo scambio di epistole tra Ila e Sajaan iniziato così per caso, prosegue in un fiume discorsivo tra i due sconosciuti protagonisti e si tramuta in un dialogo con il proprio inconscio; le riflessioni sulla vita vissuta conducono ad astrazioni, viaggi più profondi dentro la psiche dell’uomo.
In una scena che mi ha colpita molto, Saajan dice : << Verso sera mentre andavo alla stazione con Shaikh – Shaikh ed io lavoriamo insieme -, mi sono fermato a guardare i quadri di un pittore: sono quadri tutti assolutamente identici, ma se li guardi da vicino, molto da vicino, vedi che sono diversi. Ognuno leggermente diverso dall’altro: qui un’automobile diversa, lì un passeggero sull’autobus diverso, perso nei suoi pensieri, un cane randagio che attraversa la strada, qualunque cosa avesse attratto l’attenzione del pittore quel giorno… e in uno di quei quadri ho visto me stesso! O almeno penso si tratti di me.
Mi sono concesso un risciò.
Le vecchie case dei bambini con cui giocavo da piccolo non ci sono più. E anche la mia vecchia scuola.
Ma alcune cose sono rimaste le stesse: il vecchio ufficio postale c’è ancora e l’ospedale dove sono nato, dove sono morti i miei e mia moglie.
Penso che dimentichiamo le cose quando non abbiamo qualcuno a cui raccontarle.>>
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Se vi piacciono le commedie drammatiche, dategli una chance.