#48: Dei molti demoni (le parole che non ti ho detto)

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Ricordo quando ti parlavo della mia voglia di girare il mondo.
Eravamo tu ed io, seduti a tavola dopo pranzo.
Sopra il piano di vetro ancora i piatti, i rimasugli di cibo, il bicchiere macchiato di vino sul fondo davanti a te e quello pieno d’acqua tra le mie dita.
C’era la TV accesa, a volume moderato, ma non ci curavamo molto di quanto veniva trasmesso, perché in realtà stavamo già viaggiando, senza nemmeno muovere un muscolo. Lo sai anche tu che questa è una bugia, però, perché entrambi respiravamo. Non sapevamo, o forse non ci interessava ricordare, che anche solo per riempire i polmoni d’ossigeno occorrono delle fasce muscolari toniche e funzionanti, per far vibrare le corde vocali serve che l’aria le solletichi quanto basta perché il suono si tramuti in parole, per mandare giù il vino lingua, laringe e faringe si devono accordare come gli strumenti di un’orchestra.

Le ipnotiche righe di luce del pomeriggio, ombre delle tapparelle a mezz’asta, disegnavano i nostri piedi scalzi, nelle loro fattezze uguali. Io metto una gamba dietro la tua, guarda quando sono a fianco, il mio sinistro ed il tuo destro, sembrano quelli della stessa persona! 

I libri accatastati, tra scaffali e pavimento. Storia, simbolismo, religione, sociologia e molto, moltissimo altro.
Ma perché hai regalato tutti quei dischi? E le cassette? Non abbiamo abbastanza film da guardare o più probabilmente ci servirebbe un’altra vita per riuscire a vederli tutti.

Non siamo esseri umani convenzionali; o forse lo siamo e ci siamo erroneamente convinti, per una presunzione luciferina, di essere speciali?
E’ solo il potere dell’arte, anzi dell’amore per essa, che ci fa sentire diversi, estranei.

Siamo esclusivi, perché anche quando sorridiamo io ricordo te, c’è la tua traccia di malinconia che segna il mio sguardo che, inevitabilmente, rassomiglia al tuo. Sei in me e nelle espressioni che mi accompagnano quotidianamente, ma ciò non credo possa bastare.
La tua risata riempie l’aria, mi dicevi sempre. E ti giuro, avrei riso di più se solo avessi immaginato, se per un istante soltanto avessi visto cosa ci avrebbe riservato il nostro futuro.

Ho dato importanza a così tante cose effimere, persone da salvare, chimere da inseguire; ho vissuto questa vita tampinando sogni evanescenti: per questo ti sei tanto arrabbiato quando ho lasciato la nostra casa? Perché ti ho abbandonato e tu hai sempre avuto una paura atavica della separazione, tanto da farmi una colpa della mia stessa assenza, ma chi non ha timore di restare solo sul cuor della terra?

Non abbiamo tappezzato il nostro cammino con petali di fiori profumati; quando la rabbia, la disperazione e la frustrazione ci accecavano eravamo in grado di attaccarci senza pietà, mani e unghie sfoderate, sputare fiele con lingue di serpente, squarciarci il petto e costringerci al silenzio per giorni. Ma poi, in punta di piedi, tornavamo l’uno dall’altra ad accarezzare le ferite e darci tregua, certo fino al prossimo litigio.
Ma l’amore senza una lite manca di sale, così dicevi ed io ci credevo davvero.

Non siamo stati facili, né tantomeno scontati.
Ma ci siamo amati tanto, troppo, to the bones.

A me manca il tuo coraggio. Le note che hanno scortato i giorni trascorsi assieme. La mano che stringeva il mento e asciugava le lacrime.
Alla fine il fazzoletto l’ho usato per tamponare il tuo dolore, che cadeva incolore staccandosi dalla rima degli occhi.
Papà, sono qui, respira col naso. Non devi avere paura.
Le dita irrigidite, fredde, bianche di malattia, di nervi saldati al corpo ma privi di corrente elettrica, inservibili. L’ossigeno che non basta più. Il neon blu dell’ospedale. L’odore insalubre della corsia.

Oggi la barba, domani però ti lavo la schiena, ok? Ci vediamo domani, pa’.

E’ così difficile dirti addio.

#46: Riguardo alle malattie mentali

Esco di casa in pijiama per andare a recuperare il kindle dall’abitacolo della mia autovettura, accompagnata da un inconfondibile sottofondo meccanico, il rombo sordo dei motori industriali che, instancabili, macinano olio, day-in-and-day-out, rompendo il silenzio di questa notte di tormenti.
Le finestre si spengono sulla via principale del paese, il che mi evoca lesto un umore atrabiliare, “così tra questa immensità s’annega il pensier mio“…
E il naufragar, onestamente, è dolce come un sorso di acido cloridrico a freddo – quello che ti manda all’ospedale perché eri convinto fosse acqua.

Per chi ha la testa incasinata come me è difficile fermarsi e valutare.
Inspirare ed espirare.
Ricordarsi di non essere sopra un treno che va a 300 km/h, ma di muoversi a piedi, con delle fantastiche Vans, la cui tela s’adorna d’una morigerata fantasia raffigurante una castigatissima Princess Peach contornata di stelline psicotrope dell’invincibilità – e Mario bestemmia contro quel lestofante di suo fratello Luigi che, nonostante in tutta la saga sia stato solo una spettrale comparsa, riesce pure a sottrargli la donna dei suoi sogni, lasciandolo a bocca asciutta, per non dire altro.

La testa incasinata, argomentavo, non aiuta nelle scelte quotidiane, né a lungo termine, né estemporanee; ogni decisione diventa un’impresa epocale che grava sul cuore, peggio dell’anello del potere che Frodo è costretto a sobbarcarsi, smazzandosi tutta la strada che, dalla Contea Baggins, conduce dritta dritta al Monte Fato. A piedi. Senza scarpe. Con Gollum che gli sfrangia le pudenda ogni tre per due. E Sauron che con il suo occhio vulvico gli strizza il cuore e la mente anche a distanza di centinaia di migliaia di miglia. E mettiamoci in mezzo anche la storia d’amore scassaminchia tra Arwen e Grampasso. E gli Hurukai. E tutto il carrozzone di Elfi, Maghi e personaggi insopportabili, Tom Bombadil in prima linea.

Nell’immaginario comune la persona affetta da disturbi o disordini mentali si tramuta magicamente in un mostro privo di ogni capacità di discernimento razionale, incapace, inaffidabile. In realtà esistono una moltitudine di patologie che comprendono ANCHE tali specificità – mostri a parte – ma il più delle volte si tratta di casi limite.

Quando i profani sentono parlare di “instabilità“, ti vedono già girare tra i corridoi imbiancati di un reparto Psichiatrico, con indosso una bella camiciola candida, munita di eleganti cinghie e lacci regolabili, one size fits all.

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Eppure non è esattamente così che funziona.
L’instabilità affonda le sue robuste radici nel terreno fertile dell’infanzia, quando mamma e/o papà non riconoscono le nostre esigenze primarie: amore, validazione emotiva, considerazione positiva. La discrepanza tra la percezione individuale e quella genitoriale comporta un’incoerenza di fondo che può sfociare, anche in età adulta, in devianze, dipendenze, alterazioni psicologiche di lieve, media e grave entità.
C’è chi si accorge di avere un problema, chi invece lo cova inconsapevolmente, chi vuole smettere di soffrire ma non sa da dove cominciare, chi decide di rivolgersi ad uno specialista.

Io faccio parte dell’ultima schiera, ovvero quelli che hanno riempito il sacco sin sopra l’orlo con sofferenza e rabbia, tanto da essere costretti ad appellarsi alla mano salvifica di uno che di cervelli ne capisca effettivamente qualcosa.

I veri pazzi, sussurra qualcuno, affermano di non esserlo.
C’è una buona speranza, dunque, che nel mio cammino verso il Monte Fato riesca anche io ad incontrare un saggio come Gandalf, in grado di indicarmi la via e che io stessa, con il solo tripode delle mie forze, riesca infine a gettare tra le fauci infernali tutto il nero che mi fa annaspare.

anello del potere

(ma quanto è figo l’anello del potere, eh? Dopo quelle due o trenta gocce, poi, ancora deppiù)

#44: Life comes full circle

full circle

I’ve no idea where to start, but…

Sono tornata da cinque mesi nella Terra delle banane e se inizialmente il tepore del Sole, la vicinanza coi parenti ed il legame con gli amici sembrasse rinfrancare il mio animo avvilito, ora mi sembra di vivere in una sorta di Terra di Mezzo, dove tutti sono ipertesi verso se stessi, che sebbene non ti vedano dall’alba dei tempi l’unica cosa che sanno dirti è “sei ingrassata, sei invecchiata“, inframezzando tali giudizi – che ogni donna ama follemente ricevere – da incisi egoriferiti, autoreferenziali e egoistici “io ho fatto, io ho detto, io ho mangiato, io ho visto, io ho viaggiato“. Come on guys, gimme a break!

Devo dirlo, me ne sono andata dall’Italia sbattendo la porta: non vedevo l’ora di liberarmi di quel *  lavoro, di quella * famiglia, di quelle * persone, di quel * paese, di quel * di tutto (sostituire l’asterisco con imprecazioni randomiche e succulente).
L’Atlantide dei poveri era per me una “palla del male”, così come lo erano i suoi abitanti di mentalità pressapoco ravvicinata a quella dell’australopithecus afarensis, che di opponibile aveva solo il pollice.

Tre anni all’estero sono praticamente sublimati.
Ho fatto poche foto, letto pochi libri, visto poche città, scritto poche parole.

Ma con la stessa fretta di quando ho preso l’aereo per arrivarci, lì nella terra degli Yankees, sono infine andata via.
Ho lasciato il New England con la sensazione di avere lo stomaco vuoto: non ero sazia a sufficienza delle meraviglie del Nuovo Mondo.

Life comes full circle, direbbe la mia saggia amica T.

Scappi da una cosa e questa ti insegue. No. Matter. What.

Sull’aereo di ritorno ho viaggiato a fianco a Nerdy, che ora fa parte della mia vita in modo alternativo, e la PPB in fase adolescenziale, quindi incazzata abbestia per la dannata scelta presa dall’avventata madre (cioè io), che di Nero, in quel dato momento, non aveva soltanto il nomignolo.

Ho deciso di andare via? Ni.
Diciamo che il destino si è frapposto tra me ed i documenti che mi avrebbero permesso di stare definitivamente lontana dall’Italia e, perché no, “godermi” tutto il mandato del biondone on charge… Eeerh… Ma sopratutto di quelli che gli succederanno (se lui non farà un colpo di stato prima, s’intende, autoproclamandosi Imperatore d’Occidente, come nelle migliori trame d’epoca Romana).

Durante questo tempo ho preso molti aerei, nella speranza di dimenticare le brutture e acquisire nuovi pezzi da inserire nel puzzle che è la mia imprevedibile vita.
Ho tentato di toccare nuove anime, di riempire ogni mia cellula della bellezza emanata da altri esseri senzienti, ma, at the end of the day, sono qui da sola a fissare lo schermo, cercando di dare un significato a quanto sto vivendo, chiedendomi perché talvolta i ricordi brucino come sigarette spente sulla pelle nuda, aspettando risposte che non arriveranno, almeno non ora.

Life comes full circle, direi alla me stessa di quattro anni fa, che pensava di sfuggire a se stessa solo cambiando continente.

Bagno con la lingua l’indice e volto pagina, per l’ennesima volta, dando inizio ad un nuovo capitolo.
(… eh no, mi inzacchero solo metaforicamente le dita di saliva. I miei libri sono INTONSI… Hanno solo delle simpatiche orecchiette da gatto, un aspetto vissuto!)

#42: Kitchen Confidential di Anthony Bourdain


Questo libro, questo libro… Questo libro mi ha annoiata a morte, ad eccezione di qualche simpatico aneddoto lasciato qui e là, così per puro caso. 

Non vedevo l’ora di terminarlo e non per vedere dove andasse a finire, piuttosto per l’esigenza impellente di passare a qualcosa di bello, coinvolgente.

Anthony Bourdain è un cuoco-scrittore americano, che nel suo Kitchen Confidential tenta di rappresentare il mondo della gastronomia come un enorme vascello di pirati brutti, cattivi, sporchi e tossici in modo completamente esaltato ed affettato. Le cucine vengono dipinte come inferni danzanti (il che rispecchia il vero), capitanati da folli Ammiragli coi denti marci e con la fiatella di whiskey che impesta l’aria sin dalle prime luci dell’alba.

Vi è un impasto totale di stupefacenti, alcol, mafia, scopate sui luoghi di lavoro – meglio se sopra materiale deperibile-, sozzura e ciarpame. 

Non essendo uno scrittore, si avventura in una catena inutile di dettagli e sorvola invece su impressioni/ragionamenti non evidenti che abbisognerebbero di delucidazioni.

In un totale e confortevole onanismo si bulla di quanto la sua carriera sia stata dura, a tratti schifosa e di quanto sia dovuto divenire spietato e senza cuore, ma con un cuore. Sì, esattamente, il libro è trapunto di contraddizioni, smentite e noiosi salti temporali,  del tipo “quella volta al campo della banda…“.

Chiuso il libro la sensazione è stata quella del dolorosissimo postpartum, oltreché di LIBERAZIONE totale. 

Non posso dire che il frasario e i vocaboli altisonanti utilizzati non siano talvolta in completa dissonanza con il gergo, ma questa, almeno, è stata una sorpresa piuttosto piacevole.

Lo avessi letto a vent’anni forse l’avrei apprezzato, ma oggi lo trovo pretenzioso e ostentato. 

La frase più stupida che abbia letto riguardava il fatto che un cuoco che macella un’anatra ascoltando i Sex Pistol mostri alla sua brigata la propria posizione di potere e autorità… Cioè, solo perché i Sex Pistols erano dei tossici – e tu pure-, altri esseri umani, tuoi sottoposti, dovrebbero sentirsi intimoriti dalla tua mannaia che batte al ritmo delle loro canzoni sopra il cadavere di un pennuto di cinque kg? Che pateticità, amici.

Giusto un appunto: non ho nulla contro i Sex Pistol ed i i tossicodipendenti, ma contro gli stereotipi che questo libro vuole far passare per simpatici e decorativi, quando in realtà mettono in risalto soltanto il mare di cliché nel quale l’autore sguazza bellamente.

Mi è piaciuto? Su goodreads gli ho dato due stelle, essendo generosa, ma la realtà dei fatti è che non mi ha entusiasmata.

Lo consiglio? Nì. Sicuramente per gli amanti del settore culinario, per chi comprende i termini tecnici senza doverli cercare su wikipedia o sulla Treccani, questo libro potrebbe essere una chicca da aggiungere a ben più celebri romanzi sul cibo e sulla ristorazione.
Peace out!

 

#41: Sibilla Aleramo e “Una donna”

In questa giornata uggiosa e fredda di Gennaio ho deciso di dedicarmi alla “recensione” di un libro che, se non avessi fatto parte del book club Pasionaria, non credo avrei mai letto.

È stato però una piacevole sorpresa, per cui è bene parlarne.

Premetto che negli anni mi è capitato di essere stata chiamata “femminista” in modo dispregiativo da più di un uomo, specialmente in ambito scolastico.

E sì, perché mai una donna ha ardito tanto nei miei confronti (a parte chiamarmi puttana alle spalle, ma quello lo fanno anche gli uomini).

Non ho mai sentito di appartere al gruppo femminista per vari motivi, primo fra tutti il loro modo, spesso aggressivo, di trattare col resto del mondo.

Poi un giorno mi sono detta che forse se sono tanto incazzate, ‘ste donne, un motivo valido lo avranno pure. Andando a ritroso nella storia spiccano pochissimi nomi femminili a differenza degli stuoli di medici, pensatori e filosofi  che saturano il panorama culturale.  Non credo, anche guardando molte di quelle che conosco, che le donne di allora fossero meno intelligenti di quanto non lo siano quelle che vivono in tempi moderni, o che mancassero di qualche qualità fisica o cognitiva tale da inficiare la validità del loro pensiero critico. Più semplicemente, l’accesso agli ambienti scientifici, filosofici e culturali veniva loro precluso per ragioni di stampo sessista.

Nella scala sociale la donna era collocata un gradino sotto l’uomo, perché ritenuta inferiore, debole e inadatta ai ruoli di potere.

La società occidentale ha sempre delegato alla famiglia carichi onerosi, come l’allevamento e l’educazione primaria dei figli, affidando distintamente la responsabilità della prole alla madre e quella del mantenimento economico al padre.

L’uomo, grazie al salario, era “libero” ovvero aveva la possibilità di spendere il danaro come meglio credeva, a volte in modo egoistico, altre per le necessità della famiglia. Alla donna talvolta veniva concesso di amministrare le entrate, ma in più di un caso non lavorava ed era quindi dipendente dal marito; le sue necessità venivano scavalcate da altre priorità, spesso legate al benessere dei figli.

In una società in cui l’uomo è “forte” e la donna ha un valore infimo, le violenze a qualsiasi rappresaglia o dissenso manifestato tra le quattro mura domestiche sono all’ordine del giorno.

Ed eccoci arrivare al dunque: “Una donna”. Questo libro viene considerato uno dei capisaldi della letteratura femminista, poiché descrive, talvolta con caratteri irreali e idealistici, avvolti in spirali di anacronismo, l’intera vita di una donna, Modesta, che di modesto non ha nulla. 

La trama si svolge in un vortice di eventi, dipinta sopra un magnifico sfondo siciliano Novecentesco, secolo ricco di avvenimenti che sconvolgeranno la storia mondiale e la storia delle donne italiane.

I temi principali sono la libera sessualità,  l’amore, la prole, l’indipendenza, il lavoro intellettuale femminile e l’eterno dilemma di Eva contro Eva.

Senz’altro da leggere e da “sognare”.

#38: Notturno Indiano

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Producendo un post all’anno raggiungerò le mie anelate 365 notti in altri 327 anni… Non male, devo dire. Ma io sono immortale, quindi chissenefrega!
Bando alle ciance…
Voglio raccontarvi di come i libri e lo scambio culturale uniscano le persone.

Ah, lo sapete ggià?
Allora passiamo subito alla descrizione più articolata del mio pensiero sul libro “notturno indiano” di Tabucchi.

A dispetto della semplicità della forma con cui è scritto il romanzo, la narrazione si presenta e svolge come una speculazione interiore che si rivela pezzo per pezzo, in continuo divenire, nelle sue più incongruenti sfaccettature, scivolando  gentilmente dalla ragione all’idea, intrecciandosi con le corde del sogno che sostengono la passerella oscillante del dialogo, sospeso nel vuoto di quel burrone che è la realtà.  Il concetto chiave è il “viaggio“, non la meta, non la destinazione, ma il viaggiare in sé e per sé, condito dalle anomalie, dagli imprevisti, dalla ricerca di sé negli altri ed in se stessi. I dialoghi proposti talvolta sfociano nel surreale, sono essenziali, leggeri e mai banali. Ogni persona incontrata ha una storia da narrare, un frammento di sé che in qualche modo apre una finestra sull’Universo racchiuso dell’animo, e questo accade in modo analogo nella vita quotidiana quando coloro che per caso attraversano il nostro sentiero e ci offrono un raggio di luce appena accennato, ci regalando una briciola della loro esperienza che diviene in parte anche nostra.
I periodi sono spesso lunghi ed interrotti da virgole, specie nei discorsi, pertanto rendono perfettamente l’idea della incongruenza e sregolatezza del pensiero che scorre fluido dalla mente alle labbra e si concretizza nella parola pronunciata, a volte ammantata di oscuri significati, altre cruda, essenziale, priva di pretese e verità soffuse.
Il lettore è libero di immaginare quello che il narratore omette e sta a lui riempire gli spazi vuoti ed interpretare i piccoli indizi disseminati in maniera del tutto casuale e personale.

In definitiva “Notturno indiano” è in realtà la descrizione di un’illusione, un susseguirsi di attimi sfuggenti e di storie, le une sconnesse dalle altre, ognuna lasciata a metà tra detto e taciuto, ognuna spezzettata ed incompiuta, come a volerci sussurrare che così è la nostra esistenza, così è la vita.

Consiglio la lettura di questo libro?
Se le arie trasognate, romantiche fanno breccia nel vostro cuore, sì.

Mi è piaciuto?
Sì!

#36: Tre piccole formichine a New York City

Nerdy, essendo un inguaribile appassionato di fumetti/cartoni/film/supereroi/cosplay, ha deciso di non perdersi il New York Comic Con 2015, esordendo con
Ho prenotato un ostello per quattro giorni a New York City,>> con entusiasmo, aggiungendo sottovoce << A ChinaTown,>> concludendo con << e domenica tutti al Comic Con!>>

Ora vi prego di immaginare una Nero che indossa un grembiule zebrato, intenta a gestire i piatti sporchi con la mano destra e la colazione di PiccolaPesteBubbonica con la sinistra, che ascolta il discorso del succitato Nerdy, senza emettere un fiato.
Poi esplode in un << NEW YORK CITY!>> scuotendo le pareti di tutto il condominio e facendo magicamente smettere di parlare la vicina del piano di sotto (vi assicuro che ha sempre un sacco di cose da dire, a qualsiasi ora del giorno e della notte e durante tutti i giorni della settimana. Ho addirittura pensato che stesse registrando se stessa, in una sorta di audioautobiografia. 

Per Christopher Lambert! Prendi fiato tra un “uin” ed un “chun”!).

Condomina logorroica a parte, Nerdy ha pensato a tutto: ha comprato la guida, la mappa della città ed ha strutturato degli itinerari interessanti persino per la nostra almost-teen.

La nostra avventura è iniziata mercoledì scorso e si conclude oggi, mentre ancora siamo sul bus di rientro.
Non voglio farvi un elenco dei pros&cons di viaggiare sul bus, perché diventerebbe una pallosa enumerazione di cose che potete sperimentare da voi una o l’altra volta nella vita.
Per me è sempre un misto tra “viaggio della speranza” e “anche stavolta ho dimenticato la busta di carta” ma, vabbè, ci si adatta!

Qual è la prima impressione quando si arriva a NYC?
Porcomondo, ci siamo persi,” un po’ come Kevin che perde di vista i suoi genitori, smarrendosi nella Grande Mela. Solo che noi non siamo arrivati in modo trionfale, sbarcando da uno di quegli aerei superlusso atterrati al JFK, ma scendendo da un bus poraccio dopo 4 ore di sbatti di qua e di là sinchè non rivedi anche la prima briciola della cena del giorno precedente.
Nonostante fossimo mappamuniti, tutt’attorno a noi c’erano solo muri di cemento e vetro enormi, intimidatori ed irraggiungiubili.
Alle quattro del pomeriggio, con una valigia pesantissima da trainare, abbiamo sfidato il caldo asfissiante ed insolito di questo  Ottobre, raggiungendo la stazione più vicina a noi passando per la via più lunga –e te pareva.
La metro di New York è un intrico di colori, numeri e lettere apparentemente incongruenti: la prima volta non è semplice venirne a capo, soprattutto con la pisciarella e la stanchezza di un intero anno di scuola e lavoro sul groppone.
Ad ogni modo ce l’abbiamo fatta, abbiamo preso un taxi!!
Come da copione, il taxista era arabo, superipertecnologico, parlava al cellulare con qualcuno. Non guidava, semplicemente schivava macchine, pedoni ed ostacoli, io invece ho visto più volte la mia vita passarmi davanti agli occhi.
Alla fine siamo arrivati illesi a Chinatown, o meglio nel Lower east side.

Mi sento di fare un pò di pubblicità all’ostello nel quale abbiamo alloggiato che, per quanto non fosse il migliore di sempre, era abbastanza pulito, abbastanza attrezzato e locato in una posizione favorevole agli spostamenti: si trova a due minuti  a piedi dalle fermate di Bowery e Grand Street, tutta la zona è inoltre piena zeppa di ristoranti aperti anche sino alle 23:00 ed è ad uno schioppo da Little Italy, casomai voleste mangiare un piatto di pasta aglio e olio per la modica cifra di 13 dollari (anche se al Piccolo Bufalo abbiamo speso 71 dollari in tre, prendendo un’insalata, tre primi, un sorbetto ed un dessert).

● Link all’hostel su booking ●

Com’è Chinatown?
Di giorno Chinatown è strapiena di bancarelle di frutta, verdura e pesce fresco con tutta la testa, il che è una vera rarità! Gli occhi sono colpiti da mille colori diversi, insegne in lingua cinese (non so se mandarino o cantonese o…), le orecchie invece dal continuo vociare e contrattare. Per le strade il lezzo di urina e scarti del cibo fa spesso stringere lo stomaco o storcere il naso, ma talvolta si viene investiti dal profumo inebriante dei dolci appena sfornati ed è praticamente impossibile resistervi!
Queste strane bakery hanno dei tavolini e ci si può sedere a degustare queste paste a mille sfoglie, che sono un tripudio di bontà, vaniglia, zucchero, burro, colesterolo… emh, con la possibilità di accompagnarvi una tazza di latte o tè o caffè caldo o un glaciale bubble tea (ewww!)
Ci sono dei market che vendono moltissimi prodotti, etnici e non, in cui vengono sfornati dei buonissimi bun a prezzi imbattibili.
Diciamocelo, Chinatown è superabbordabile. Ma è anche supersporca. Negli angoli delle strade troneggiano cataste di buste d’immondezza il cui percolato è disgustoso e va a comporre rivoltanti rigagnoli oleosi ai margini della strada,  nei quali potersi romanticamente specchiare… Aaaah

La lingua parlata non è l’inglese, ma un miscuglio incomprensibile. Spesso i venditori ti ignorano o sembrano infastiditi dalla tua presenza, poi però capisci che dopo 30 anni di lavoro continuativo, alzandosi alle 4 del mattino, lavorando sino alle X di sera, “shine or rain” (includiamoci anche snow) e senza manco il barlume di un giorno libero, magari abbiano un lieve vorticamento di eliche e tutta sta voglia di sorriderti l’abbiano persa assieme ai buoni propositi di inizio anno cinese.

Chinatown, che ci piaccia o no, merita di essere vista e vissuta

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Comprare o non comprare il citypass?

Ero partita con l’idea di acquistare un pass per le maggiori attrazioni della città, poi per una serie di eventi fortuiti non l’ho comprato e MENO MALE!
Tralasciando la simpatica parte in cui mi sento male in vacanza con capogiri terribili che ancora mi fanno sentire come se la mia testa fosse una palla con dentro l’acqua e la neve, non siamo stati in grado di visitare nemmeno la metà dei musei e degli edifici che ci eravamo riproposti.
Probabilmente con questo avremmo risparmiato qualche fila o alcuni dollari, ma alla fine per me è stato molto più rilassante decidere dove andare e quando, senza sentirmi vincolata in alcun modo.

Non avrò visto NYC dalla corona della Statua della Libertà, ma ho comunque immortalato il momento a modo mio, fotografando PPB e Nerdy intenti a contemplare la magnificenza del panorama urbano.

● Link alla compagnia ufficiale che si occupa dei transiti da/per Ellis Island e Statua della libertà ●

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Ci sarebbero innumerevoli cose da dire su questa strana città che raccoglie sotto lo stesso cielo milioni di persone con background a volte tanto simili a volte agli esatti opposti, che ti rapisce, ti abbandona e ti fa sentire piccola come una formichina lontana dal proprio formicaio, ma per ora mi fermo qui, lasciando qualche foto…

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E voi? Avete visto NYC?

#35: Il riassunto delle puntate precedenti e “il libro della vita e della morte”

È arrivato il tanto agognato Settembre!
Ed è anche arrivato il momento di riappropriarmi del mio blog, ché ho dovuto pagare fior fior di sesterzi per rivederlo in funzione!

Bando alle ciance mattutine di un sabato qualunque di Settembre, impugno la mia immaginaria penna e comincio a descrivere, senza troppi dettagli, quanto successomi negli ultimi tempi!
A dire il vero apparentemente proprio nulla dall’ultima volta, ma dentro me sento un tumulto a volte incontrollabile che parte dalle viscere e spesso si muove attraverso i tubi digerenti, poi risale a solleticare le corde vocali sino a sfociare, in seguito ad un misto di contrazioni muscolari di diaframma, gola e bocca, in sonori vaffanciuffo e porci vari, alati per lo più.
Nel giro di poche settimane ho perso entrambe le nonne, le uniche rimastemi oltretutto visto che i nonni hanno avuto troppa fretta di andare via da questo mondo, e sono stata male a lungo.
Non riuscivo ad accettare, specialmente per la madre di mia madre, di non poterle più vedere e salutare… Ho scritto loro una lettera che forse pubblicherò in seguito. Ancora il senso di lacerazione è devastante per potermene liberare del tutto.

Ma tralasciamo per un po’ questo discorso triste per passare nuovamente a cose frivole e prive di valore: FB.
Ho deciso di disintossicarmene.

Questo stramaledetto social media è in grado di logorare anche le menti più solide e plagiarle, piegandole al proprio volere oscuro e contorto.
Molte delle persone che conosco o che mi gravitano attorno, mio malgrado, vivono in questa sorta di bolla continua la cui superficie iridescente costituisce un limite sottile, ma evidente, tra sé stessi nella realtà e all’interno della piattaforma sociale più discussa e chiacchierata del secolo.
Secondo il mio punto di vista, stiamo assistendo alla più grande disconnessione umana mai conosciuta, stiamo annegando dentro un mare di pixel e scambi pseudo intellettuali in contesti del tutto inconsistenti.
Ci stiamo facendo controllare volontariamente, dandoci in pasto per intero a qualcosa che, alla lunga, non riusciremo a controllare.
Per lo meno, io non sono in grado di placare il mio incazzo sociale quando sono abbastanza attiva nelle discussioni riguardanti, ad esempio, l’immigrazione o l’alimentazione. Mi incazzo, punto e basta!

Sì, è ovvio che il problema sta a monte e trova sede in questa mia piccola testolina di innocente gatto sornione, ma la fiera che ho dentro, quando esposta all’arma di distrazione di massa rispondente al nome di facebook, riemerge dagli abissi e mi si possiede con violenza.
Fortunatamente, prima di mettere mano alla tastiera, penso quattrocento volte alle parole adatte da snocciolare con il massimo distacco e cortesia, anche nelle occasioni in cui l’unica risposta sarebbe un gioioso “ardi assieme a tutta la stirpe“.

È una questione soggettiva, forse, ma questa mia continua mediazione tra me stessa e la me-stessa-di-fb ha cominciato a stancarmi. Persino i gruppi di cucina stavano cominciando a diventare metaluoghi di perdizione, angoscia e continui fracassamenti di ovaie.

La nostra società sta divenendo distopica, come già previsto da grandi menti come quella di Orwell e Pasolini, ed a noi poveri inetti non rimane che “guardare” o fare gli opinionisti senza competenza a tempo perso per acchiappare quanti più like da persone sconosciute, che rimpiazzano prontamente il calore delle persone in carne ed ossa.
La nostra totale incapacità di confronto emozionale e personale ha compromesso uno scambio genuino, spontaneo e lo si evince con emerita tristezza anche dalle foto pubblicate a fiumi sulle “seratone più belle dell’anno” o sulla bocca a culo migliore del mese.

Ma voltiamo pagina e dedichiamoci, appunto, alla fatica letteraria di Deborah Harkness, intitolata “Il libro della Morte e della Vita“.

Categorizzato come un libro fantasy dalle tinte dark, questo romanzo narra la storia di una studiosa di storia della scienza, Diana Bishop, la quale entra in possesso di un manoscritto antico ed incantato. La storia si preannuncia piena di soprese e ci sarebbero tutti gli elementi per un ottimo racconto cupo, misterioso e accattivante… se SOLO non ci fosse una stramaledetta storia d’amore strappapalle a rovinare tutta la vera magia!

Cosa mi è piaciuto:
Innanzitutto le ambientazioni nelle quali hanno luogo le vicende sono molto suggestive: il romanzo è infatti ambientato principalmente in Europa, tra l’Inghilterra e la Francia, luoghi che di per sé trasudano storia, evocano alla mente immagini di lontane battaglie, ballate ed intrighi di corte, rafforzandosi nelle descrizioni dei castelli decadenti che richiamano vagamente l’idea romantica che lega indissolubilmente amore e morte in una danza, prima lieve e poi calzante.

La lettura è scorrevole ed il lessico di facile comprensione.
La narrazione è abbastanza lineare e trova compimento in questo primo libro, chiaramente ideato per avere un seguito.

Cosa NON mi è piaciuto:
Premetto di non aver mai letto Twilight, in compenso ho guardato Buffy per tutta la mia adolescenza.
Se c’é una cosa che mi urta davvero i nervi, quasi come sbattere il mignolo sullo stipite del mobile, è l’amore impossibile tra l’umana ed il vampiro che diventa possibile di colpo, contro tutto e tutti, persino contro qualsiasi logica e buon senso.

Scompattiamo per un secondo questo grande blocco rappresentato dal legame amoroso tra i due.

Matthew è attratto da Diana perché lei è la prescelta, l’unica capace di ottenere il manoscritto senza il minimo sforzo.
Diana più volte lo rifiuta, percependolo come pericoloso, ma lui non demorde ANZI diventa più pressante, presente ed asfissiante, tanto che arriverà al punto di entrarle in casa mentre lei dorme.
Allora, questo a casa mia si chiama essere degli stalker e siccome il libro è indirizzato a giovani adulte (ma leggasi pure adolescenti), il messaggio che passa è totalmente sbagliato, ovvero che quando una donna ti rifiuta in realtá è solo perché vuole fare la preda.
Ragazzi miei cari, NO vuol dire esattamente NO, non mi sembra così difficile da comprendere. Ed anche voi donne e scrittrici del nostro tempo, BASTA con queste minchiate dell’amore nato dallo stupro o più in generale dalla violenza. Capisco che possa capitare, ma è un caso su quanti?!

Diana viene descritta come forte, determinata e capace di badare a sé, ma quando Matthew, il vampiro bello e maledetto, entra in gioco, qualsiasi suo rifiuto, anche e soprattutto se esplicito, viene disciplinato dalla volontá di lui.
Proprio a causa di questa sua forza caratteriale, Diana è un personaggio scomodo, pertanto la scrittrice americana ha ben deciso di dare al vampiro stalker e protettivo, ma allo stesso tempo famelico cacciatore, il ruolo di educatore.

Man mano che il racconto prosegue, Diana diventa nel contempo una supereroina piena di poteri iperperfetti ed allo stesso tempo un piccolo animaletto indifeso di cui tutti DEVONO prendersi cura, la volontà di lei si rivela votata con dovizia all’incontrovertibile risolutezza del vampiro-padre-padrone-stalker.

Potrei andare avanti a distruggere ogni minimo dettaglio di questa storia d’amore, addentrandomi nell’insidioso rapporto suocera-nuora, ma mi astengo perché lo trovo talmente ridicolo che è al limite del pensabile.

Le citazioni storiche sono spesso fumose, inesatte e collocate in maniera casuale nel testo. Una eclatante è quella in cui a Caterina de’ Medici viene affibbiato l’appellativo di “regina italiana”.
NO.
Al massimo è stata regina consorte e poi reggente di Francia, ma l’Italia vedrà la sua prima regina “italiana” nel 1861 e sarà Margherita di Savoia moglie di Umberto I!

Consiglierei questa lettura?
Ni. Se non avete di meglio da leggere, CERCATE ANCORA!

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#33: Cosa bolle nella pentola (di fagioli)?

blblbl

Blop, blop, blop, blop. Puuuffffssssh!
Blop, blop, blop, blop. Pufffffsssh!

[Ti trovi in una cucina ampia e pulita. C’è un costante sottofondo di mestoli che incontrano padelle, padelle che incontrano fornelli, fornelli che incontrano dita e lingue che incontrano denti e palato per formulare imprecazioni.]

Cosa c’è dentro quella pentola che mescoli da ore?” dice Nerdy alle mie spalle.
Qui dentro? Ci sono i fagioli di tutti gli americani!” rispondo io, alzando le orecchie come un gatto vigile.
Nerdy rimane interdetto e, senza studiarmi oltre, alza le spalle e ritorna al suo pc, favorendo la crescita esponenziale delle sue valigie cerchiate di viola cupo che adornano preziosamente i suoi occhioni da cerbiatto. Anzi da toro. Anzi da mucca. Insomma, quei suoi begli occhietti dolci.

C’erano una volta gli americani
Un popolo unico, unito, indivisibile, sotto la guida di Dio, in un paese dove la giustizia e la libertà sono per e di tutti.

[Due minuti di silenzio.
Perché uno effettivamente non è sufficiente per metabolizzare questa… Emh. Questa affermazione. Sì.]

I figli degli usurpatori degli indiani d’America vorrebbero insegnare al mondo come si vive in un Paese libero, moderno, culturalmente avanzato, lanciandosi nell’impresa di spiegare cosa sia e come si raggiunga la felicità.
Forse per alcuni è davvero difficile credere che, in uno dei paesi più ricchi del mondo, esista un numero così spropositato di persone infelici. Sì, avete letto bene INfelici.
Sembra inconcepibile, ma la realtà dei fatti lo dimostra costantemente ed in ogni salsa: ordinano un panino e vorrebbero che questo fosse già lì, pronto a farsi mangiare dopo un solo secondo dall’averlo pronunciato; chiedono al salumiere 400 g di prosciutto, ma non vogliono aspettare che la carne venga affettata; mettono il cibo dentro il microonde e guardano ogni-dannato-secondo il timer; si siedono sulla sedia della parrucchiera e la incitano a fare più svelta. E guai a VOI se sbagliate nel porvi, anche solo impercettibilmente, deludendo le loro enormi, mastodontiche aspettative nutrite anche verso la più banale delle cose, che sia il dargli l’erroneo dressing per l’insalata o mancare la vocale del loro incomprensibile cognome.
La loro vita si basa sul principio di fast = veloce, che non contempla, né rispetta, il legittimo ciclo degli eventi, la genuina essenza della natura per cui “ogni cosa a suo tempo” ed un “tempo per ogni cosa“.
Essere fast ti fa guadagnare tempo, pertanto stanno sempre coi piedi per aria a rincorrere i secondi che sfuggono via.

Ma come dice Euripide (mica uno così a caso, eh!) “il tempo è breve e chi insegue l’immenso perde l’attimo presente.”
La loro ossessione per il tempo è legata a tantissimi fattori, uno di essi è sicuramente la loro impossibilità a vivere la vita, perché impegnati nello strenuo sforzo di contare i centesimi che guadagnano per comprare spasmodicamente tutto quello che desiderano, masticando dalle sessanta alle ottanta ore settimanali di servizio, presentandosi al lavoro con la febbre, foss’anche l’ebola mutante, per non perdere nemmeno 1 dollaro (e con un dollaro a volte non compri manco le caramelle!).

Un altro concetto chiave della loro esistenza è: tempo = danaro.
Se lo ripetono come un mantra la mattina appena scendono dal letto come zombie e, automaticamente, accendono la tv, mangiando una tazza di cereali colorati (con solo-il-tuo-dio-sa-cosa) di fronte allo schermo, ipnotizzati dalla magnificenza del nulla trasmesso h 24/24, sempre, ogni giorno, anche a Natale.
Il loro vero Dio è il soldo. Lo venerano, lo amano ed ammazzano nel suo nome. Ovunque nel Mondo è così, ma qui assume l’aspetto della malattia, della brama che sfocia quasi nella depravazione.
La loro sete di tempo è congiunta indissolubilmente alla fame di moneta sonante, perché con i quattrini, tanti quattrini, si può avere tutto quello che si vuole, e si possono barattare i sentimenti (interni a sé) per gli oggetti (esterni da sé).

Questa devastante concupiscenza sfora nel “Io voglio“, la vera parola d’ordine, l’imperativo costante che fa diventare l’uomo lupo tra gli altri uomini. Niente è più collettivo, frutto dell’unione e della condivisione, tutto è individuale.

Non gli va mai bene niente! Si lamentano di qualsiasi cosa: del tempo, dei soldi, del governo ladro, della cameriera chiatta, del medico caro, del giornalista zoppo, la casa è brutta, e quello che schifo, e l’altro che indecenza e questo come si fa, ma è mai possibile, ti rendi conto, male ovunque…

EHY EHY, cavolo prendiamo fiato!
Non si può andare sempre in giro con una pentola piena di fagioli che bollono e sono pronti ad esplodere da qui a poco! Per cosa si vive davvero? Per il Sole, forse. O anche per il solo fatto essere testimoni di quanto sia meraviglioso veder nascere un prato verde punteggiato di microscopici fiorellini, dove prima si estendeva a perdita d’occhio un manto di gelida neve! O ancora per abbracciare le persone che ami e, perché no, per mangiare una buona pila di pancakes allo sciroppo d’acero.

L’America è meravigliosa, sono gli americani ad essere sbagliati!

Caffè e lavoro.

Un abbraccio a voi, biscottini di zenzero.

(Nerdy ha chiesto se la cena era pronta, gli ho detto che ho buttato la pentola, con tutti quei fagioli sai che concerti poi! Si cena fuori!)