#46: Riguardo alle malattie mentali

Esco di casa in pijiama per andare a recuperare il kindle dall’abitacolo della mia autovettura, accompagnata da un inconfondibile sottofondo meccanico, il rombo sordo dei motori industriali che, instancabili, macinano olio, day-in-and-day-out, rompendo il silenzio di questa notte di tormenti.
Le finestre si spengono sulla via principale del paese, il che mi evoca lesto un umore atrabiliare, “così tra questa immensità s’annega il pensier mio“…
E il naufragar, onestamente, è dolce come un sorso di acido cloridrico a freddo – quello che ti manda all’ospedale perché eri convinto fosse acqua.

Per chi ha la testa incasinata come me è difficile fermarsi e valutare.
Inspirare ed espirare.
Ricordarsi di non essere sopra un treno che va a 300 km/h, ma di muoversi a piedi, con delle fantastiche Vans, la cui tela s’adorna d’una morigerata fantasia raffigurante una castigatissima Princess Peach contornata di stelline psicotrope dell’invincibilità – e Mario bestemmia contro quel lestofante di suo fratello Luigi che, nonostante in tutta la saga sia stato solo una spettrale comparsa, riesce pure a sottrargli la donna dei suoi sogni, lasciandolo a bocca asciutta, per non dire altro.

La testa incasinata, argomentavo, non aiuta nelle scelte quotidiane, né a lungo termine, né estemporanee; ogni decisione diventa un’impresa epocale che grava sul cuore, peggio dell’anello del potere che Frodo è costretto a sobbarcarsi, smazzandosi tutta la strada che, dalla Contea Baggins, conduce dritta dritta al Monte Fato. A piedi. Senza scarpe. Con Gollum che gli sfrangia le pudenda ogni tre per due. E Sauron che con il suo occhio vulvico gli strizza il cuore e la mente anche a distanza di centinaia di migliaia di miglia. E mettiamoci in mezzo anche la storia d’amore scassaminchia tra Arwen e Grampasso. E gli Hurukai. E tutto il carrozzone di Elfi, Maghi e personaggi insopportabili, Tom Bombadil in prima linea.

Nell’immaginario comune la persona affetta da disturbi o disordini mentali si tramuta magicamente in un mostro privo di ogni capacità di discernimento razionale, incapace, inaffidabile. In realtà esistono una moltitudine di patologie che comprendono ANCHE tali specificità – mostri a parte – ma il più delle volte si tratta di casi limite.

Quando i profani sentono parlare di “instabilità“, ti vedono già girare tra i corridoi imbiancati di un reparto Psichiatrico, con indosso una bella camiciola candida, munita di eleganti cinghie e lacci regolabili, one size fits all.

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Eppure non è esattamente così che funziona.
L’instabilità affonda le sue robuste radici nel terreno fertile dell’infanzia, quando mamma e/o papà non riconoscono le nostre esigenze primarie: amore, validazione emotiva, considerazione positiva. La discrepanza tra la percezione individuale e quella genitoriale comporta un’incoerenza di fondo che può sfociare, anche in età adulta, in devianze, dipendenze, alterazioni psicologiche di lieve, media e grave entità.
C’è chi si accorge di avere un problema, chi invece lo cova inconsapevolmente, chi vuole smettere di soffrire ma non sa da dove cominciare, chi decide di rivolgersi ad uno specialista.

Io faccio parte dell’ultima schiera, ovvero quelli che hanno riempito il sacco sin sopra l’orlo con sofferenza e rabbia, tanto da essere costretti ad appellarsi alla mano salvifica di uno che di cervelli ne capisca effettivamente qualcosa.

I veri pazzi, sussurra qualcuno, affermano di non esserlo.
C’è una buona speranza, dunque, che nel mio cammino verso il Monte Fato riesca anche io ad incontrare un saggio come Gandalf, in grado di indicarmi la via e che io stessa, con il solo tripode delle mie forze, riesca infine a gettare tra le fauci infernali tutto il nero che mi fa annaspare.

anello del potere

(ma quanto è figo l’anello del potere, eh? Dopo quelle due o trenta gocce, poi, ancora deppiù)

#37:Lunchbox

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Lunchbox” è un film del 2013, ambientato in un’India recente, successiva o subitaneamente contemporanea al 1995, data in cui Bombay è divenuta Mumbai, luogo in cui la vicenda prende vita.
I personaggi principali sono tre: Ila, che incarna la tipica madre, moglie e casalinga indiana, ligia al proprio dovere di angelo del focolare, Sajaan, che lavora nell’ufficio contabilità di una importante compagnia, e Shaik, un orfano senza arte né parte che verrà affiancato sul lavoro come apprendista a Sajaan.

La vicenda fa perno su una falla del sistema di consegna del cibo, in particolare quello recapitato agli uffici durante le pause pranzo, che a Mumbai è affidato ai dabbawallah, “fattorini”che si muovono su bici in mezzo all’ intenso traffico cittadino e che sono spesso analfabeti. Nonostante questo piccolo neo, la loro conoscenza complessiva delle strade gli permette di limitare gli sbagli nella distribuzione dei viveri.
Sarà proprio per un errore di consegna che Ila “incontrerà” Sajaan.
Tra loro inizierà uno scambio di piccoli biglietti, attraverso i quali i due si narreranno l’un l’altra le proprie perplessità sulla vita. Il cibo diviene non solo un mezzo per nutrire il corpo, ma soprattutto per sfamare l’anima.

Sajaan durante il momento del pranzo ricerca un’intima solitudine per godere e del pasto e delle parole di Ila, per quanto poche, ma viene spesso interrotto dall’apprendista.
Ad un certo punto i due uomini si ritrovano a pranzare allo stesso tavolo. Il protagonista invita il giovane ad assaggiare le portate ed il ragazzo, favorevolmente colpito dalla bontà del cibo, chiede che venga ordinato anche per lui un pranzo del genere per i giorni a venire, ma Sajaan, mentendo, asserisce che a breve il ristorante che fornisce lui il quotidiano pasto verrà chiuso, perché in India, anche di fronte ad un lavoro svolto ottimamente, non viene riconosciuto “il merito”.
L’ovvia critica al sistema politico Indiano, per quanto all’interno del contesto appaia come una debole lamentela, innesca nello spettatore un senso di disagio e di riconoscimento immediato nei due protagonisti: quante volte al ristorante o al bar o a casa, di fronte ad un piatto caldo, ci si è ritrovati a maledire l’inefficienza dello Stato? Penso che persino ora, da qualche parte, qualcuno stia argomentando in merito.
Inoltre la critica è avvalorata dalle immagini proposte, che risultano quasi uno schiaffo morale e visivo: le strade, le costruzioni e le persone vengono rappresentate nella loro crudezza e verità. Il sudiciume e il caos  urbani si riflettono nella vita quotidiana, anzi ne fanno pienamente parte.

Nonostante i leit motiv di questo film siano in un certo senso la quotidianità, l’amore e l’intimità personale, viene introdotta anche una tematica a me molto cara, che è quella della condizione femminile all’interno della società indiana.
Anche se le figure femminili all’interno della pellicola sono ben presenti, la loro essenza è inscritta in quello stigma sociale che pervade la struttura della società complessa dai suoi albori.
L’opposizione, contrastata dalla rassegnazione riguardo l’archetipo di donna-madre, donna-casalinga e donna-sottomessa  prende voce gradatamente sino a raggiungere il proprio acme in una scena che vede come protagoniste Ila, sua figlia e sua madre di fronte al letto del padre malato.
Ila, accortasi della precaria situazione economica in cui versa la sua famiglia d’origine, si propone di prestare/regalare una certa quantità di soldi per le cure del padre; la madre rifiuta dicendo << Siamo donne, ti sembra bello chiedere continuamente i soldi? >> sottolineando che se il padre malato avesse scoperto tal fatta, l’umiliazione derivata avrebbe in un certo modo macchiato l’onore familiare.

 
Lo scambio di epistole tra Ila e Sajaan iniziato così per caso, prosegue in un fiume discorsivo tra i due sconosciuti protagonisti e si tramuta in un dialogo con il proprio inconscio; le riflessioni sulla vita vissuta conducono ad astrazioni, viaggi più profondi dentro la psiche dell’uomo.
In una scena che mi ha colpita molto, Saajan dice : << Verso sera mentre andavo alla stazione con Shaikh – Shaikh ed io lavoriamo insieme -, mi sono fermato a guardare i quadri di un pittore: sono quadri tutti assolutamente identici, ma se li guardi da vicino, molto da vicino, vedi che sono diversi. Ognuno leggermente diverso dall’altro: qui un’automobile diversa, lì un passeggero sull’autobus diverso, perso nei suoi pensieri, un cane randagio che attraversa la strada, qualunque cosa avesse attratto l’attenzione del pittore quel giorno… e in uno di quei quadri ho visto me stesso! O almeno penso si tratti di me.
Mi sono concesso un risciò.
Le vecchie case dei bambini con cui giocavo da piccolo non ci sono più. E anche la mia vecchia scuola.
Ma alcune cose sono rimaste le stesse: il vecchio ufficio postale c’è ancora e l’ospedale dove sono nato, dove sono morti i miei e mia moglie.
Penso che dimentichiamo le cose quando non abbiamo qualcuno a cui raccontarle
.>>

Mi è piaciuto questo film?
Decisamente!

Lo consiglio?
Se vi piacciono le commedie drammatiche, dategli una chance.

#29: La lettera che non ti ho mai scritto (e che forse nemmeno ti meriti).

Vedi, ci sono tantissimi esseri viventi in questo mondo. Ognuno ha le proprie peculiarità: c’è chi è distratto e si dimentica qualcosa perché ha la testa fra le nuvole, perso nei propri perché, impegnato a rincorrere il Bianconiglio seguendo il lontano richiamo del ticchettio dell’orologio; c’è chi ha un carattere ostile, impenetrabile e niente e nessuno può fargli/le  cambiare idea, opinione; c’è chi ha un gran cuore e vuole dimostrarlo a tutti i costi, “costi quel che costi”. C’è ancora chi ha una grande pazienza, ma rimane in silenzio ad ascoltare, osservare, coltivando emozioni e riflessioni segrete che poi sbocciano in un meraviglioso giardino di fiori nascosto da alte mura di intricate edere, le quali celano ancora un piccolo passaggio segreto, forse una porticina con una chiave che spetta a te cercare. Ci sono quelli che sembrano rudi e sono in realtà delle torte di cioccolato fondente dal cuore morbido, ma ci sono anche quelli che sembrano rudi e sono rudi, volgari e inopportuni. Alcuni hanno un’anima sensibile intrappolata in un corpo che sembra non volergli appartenere, altri ancora hanno un corpo meraviglioso ma un’anima lercia. Ci sono quelli che non badano al proprio corpo ma ai propri atteggiamenti, vivono per gli ideali “ben più alti” di ogni umana frivolezza.
Poi ci sei tu.

Tu.

Avrei voluto scriverti una lettera, ma non trovo mai le parole adatte che possano descriverti esattamente. Quelle giuste, che ti si cuciano addosso come fossero un abito.
Per un momento della mia vita ho pensato di aver trovato in te un’amica perfetta. Non ho mai dato troppo peso alle mancanze, alle assenze, alle parole non dette o alle parole dette con leggerezza. Ho sempre pensato che tra noi esistesse un legame vero, profondo, illudendomi fosse “inossidabile”, capace di sfidare ogni sorte ed ogni avversità.
Avevo un’immagine in mente di te totalmente diversa dalla realtà. Mi sono illusa di poterti stare vicino nella tua sofferenza, nei tuoi sorrisi, nella tua vita e di poter toccare, con la mia, la tua anima, anche solo sfiorandola appena appena, gentilmente, come si fa con la punta delle dita contro il petalo di un bocciolo profumato e fresco.
Non credo di aver cercato spasmodicamente di invadere la tua essenza, ma posso dirti di non averti capita e di aver preso un forte abbaglio, di aver letto male i “sintomi” della tua inimicizia ed aver interpretato la realtà a mio modo, forse perché ciò che “sentivo” si scontrava totalmente con quel che “vedevo”.
Ho percepito un cambiamento, ma non credevo in quello che mostravi. Era troppo difficile da ingoiare e digerire.
Non capivo il perché dei tuoi atteggiamenti freddi, scostanti e dettati dalla presenza di questa o quella persona, dei tuoi momenti di ostilità, dei tuoi falsi abbracci, delle moine prive di qualsiasi vero affetto.
Le parole dette alle mie spalle, così pesanti e terribili, mi hanno ferita.
Sono ferita tutt’ora. Ma non ti porto rancore.
L’unica mia domanda è “perché?”.
E sai cosa mi fa più male? Non trovare una risposta e, al posto di quest’ultima, lasciare un enorme vuoto. Una voragine. Non capisco quale motivo ti abbia portata ad essere irraggiungibile ed intangibile.

Non voglio più stare male per te. Voglio lasciarti andare, leggera ed ondeggiante come una barca sul mare placido, e stare dove sono, sulla riva a fissare il cielo e l’orizzonte nel quale ti perdi e, piano piano, sparisci lontana da me a cercare la tua felicità.

Ci sono tante parole che non ti ho detto e che non ti dirò mai. Solo ora capisco che non te le meriteresti. Non più.

#27: Il tacchino, la neve e lo shopping sotto le stelle.

Passiamo con la macchina affianco al cimitero ricoperto di neve. Attraverso i finestrini, riesco a vedere le lapidi ricoperte di un sottile strato bianco di cristalli ghiacciati che risplendono quando toccati dalla luce dei fari.
PiccolaPesteBubbonica, seduta nei sedili posteriori, canticchia qualcosa assieme ad un’amica brasiliana. Sono circa le nove e mezzo di sera e stiamo andando a fare shopping.
Nella mente ho un milione di pensieri. No, forse due. Miliardi. Di milioni.
Abbiamo passato una giornata a mangiare e chiacchierare a casa di un’amica/collega, che ha preparato una tavola meravigliosa imbandita di ogni grazia di Dio. In verità erano due: una per il salato e l’altra per il dolce. Il clima era quello che trovi dentro casa tua durante la cena della vigilia di Natale: pace, amore, calore e voglia di stare insieme per condividere le cose belle della vita ( e anche quelle meno belle, diciamocelo).
E certo che si ha voglia di stare vicini e spartire! Siamo, chi più chi meno, lontani almeno 10,000 miglia da casa nostra, con una voglia matta di essere amati e accettati per come siamo. Niente di più facile, giusto?
Eh
Thanksgiving.
Parliamone.
Ringraziamento… E chi devo ringraziare?
Non posso mettermi proprio ora a stilare una lista delle persone a cui devo tutta la mia gratitudine. Come potrei? Rischierei di battere sulla tastiera migliaia di nomi, migliaia di ragioni, scartabellando faticosamente i fogli impilati sulla scrivania della mia mente, esaminando i ricordi, uno dopo l’altro.
Sono grata. Sappiatelo. Sono riconoscente verso tutto e tutti. Verso ogni respiro che lascio andare e che riprendo dentro me, sono grata del cielo, del Sole, della pioggia, del vento e del Sole mentre piove e fa vento. Sono grata di essermi svegliata stamattina, di aver potuto vivere questa meravigliosa giornata con delle persone che, come me, si sforzano di sorridere nonostante le difficoltà. Dico grazie per i frutti del mio raccolto, per l’amore che mi circonda. Per avere con me due gioie (PPB e Nerdy), ed è per loro che la mattina mi alzo e faccio tutto quello che posso.
Grazie, grazie, grazie. Grazie anche a chi mi ha fatto del male, a chi mi ha dato delle lezioni, a quelle parti della mia vita che sono state come brutti schiaffi perché sono state motivo di crescita.
Sempre più spesso ho paura che questo incanto possa infrangersi da un momento all’altro. Ho tantissime paure che cerco di tenere nascoste dentro me. E che per oggi rimarranno silenziose. Voglio pensare che questa magia possa durare eternamente, rinchiusa in questo infinito attimo.

Ok. Poi al Mall ho comprato una caffettiera nuova. Elettronica. E fa 12 cups di caffè.
E anche la bilancia elettronica. Ho bisogno di riprendere a mangiare come un essere umano.  (e smetterla di mangiare queste cose buonissime e piene di zucchero, burro, olio, colesterolo, grasso…)

Thanksgiving-Day-1

#25: “Beata te” a chi?!

Oggi ho esagerato col caffè. Va be’ che è lungo, va be’ che non è fatto con la moka e nemmeno è un espresso del bar, va be’ che non ha zucchero ma, accidenti a me, tre tazze da colazione quasi colme sono DAVVERO troppe.
Va be’,  ormai è andata ed è inutile versare lacrime amare sul coccodrillo. Versare il latte sulle lacrime di coccodrillo.  Piangere sul caffellatte. Caffellatex (mi vengono in mente cose idicibili!).
** 1 – 2 – 3 prova, prova, sah, sah ***
L’ultimo neurone ha detto ciao. È educato, “mica come questi ragazzi di oggi… Quando ero giovane io…

Comunque, so bene che tutti avete perfettamente capito cosa intendevo:

È inutile piangere sul caffè bevuto.

Tanto ormai è andato, anche quello. Più o meno come il mio amico neurone in cerca di compagnia. Non voglio deluderlo, però, dicendogli che una volta morti i neuroni non resuscitano più. Forse ne nascono di nuovi, ma non sono un medico e, ad ogni modo, non sono qui per parlarvi di Nancy (il mio neurone biondo che controbilancia la mia parte cupa).

Sto fondendo. Lavoro così tanto che il mio cervello ha deciso di prendersi una vacanza autonomamente. Quando l’ho visto andar via con la corda spinale avvolta attorno alla valigia e l’ombrellone piantato nel ventricolo destro, non ho avuto bisogno di ricevere altre spiegazioni.
Però non mi lamento e penso a quanti non hanno nulla, nemmeno un tetto sulla testa o un affetto relativamente vicino.
Rifletto sul fatto che in pochi anni ho realizzato molti dei miei obiettivi e, lo dico, tenetevi, sono abbastanza soddisfatta del mio operato. Mi sento sufficientemente fiera di me stessa, ma ancora non abbastanza.

Ce la metto tutta, impiego tempo, voglia, denaro ed energia per ottenere il massimo. Questo “massimo” costa caro, non è gratuito ed è una salita nemmeno troppo agevole sulla quale inerpicarsi. Ma questa è la via e, armata di tutto punto, decido di affrontarla e rischiare.
Ogni buon obiettivo cela una dose di rischio, questo è quanto devo pagare e sono pronta a farlo.
E se va male?  E se va male, allora si ricomincia da qualche parte, con un bagaglio nuovo, un po’ più pesante e sicuramente colmo di nuove cose: panorami, orizzonti, idee, volti, storie, parole, culture, gesti e chissà cos’altro.

Ogni giorno diventa una pagina bianca sulla quale sono IO a decidere cosa scrivervi sopra, nero su bianco, evidenziando le parti che ritengo più ricche ed utili, scartando quelle che non mi fanno crescere o che non incrementano le mie conoscenze, la mia curiosità, la criticità che ho verso il mondo e quella verso me stessa. Forse queste ultime in ordine inverso.

Quando raggiungi uno dei tuoi “goal” (al singolare, altrimenti i grammar-nazi mi puniscono nel nome della Luna – ma in questo post di errori ce ne sono a iosa), senti tutto l’Universo congiungersi e sorriderti con un certo compiacimento, quasi strizzandoti l’occhio. Un’ondata di positività ti stravolge la mente. “Ah, il potere della vittoria!”
Poi…
Arriva.

È un tuo amico/una tua amica. O almeno tu lo definiresti tale. Ci credi davvero.
Ti stringe la mano, ti fa i complimenti di rito, si congratula emulando la serietà di un avvocato nel momento in cui presenta al cliente la (salatissima) parcella e, aprendo per bene le labbra in modo che le sillabe vengano scandite con efficienza, ti dice:

BEATA TE“.

In quel momento il buio obnubila ogni mio pensiero.
L’unica cosa lucida che la mia mente sgrava è uno scenario apocalittico in cui Bafometto ed i suoi fidi amici vomitano lava, lapilli, peste e colera sulla terra sconquassata da tremori, maree, crepe e *aggiungi qualcosa di terribile ed agghiacciante per me, grazie*.

Beata? DICO IO?
Ma con tutte le parole che esistono nel fantastico vocabolario italiano, vai a scegliere la più sfigata? La più attribuibile ad una divinità che ad un essere umano in carne ed ossa?!
MI STAI FORSE DICENDO CHE I MIEI SUCCESSI HANNO DEL MAGICO? Che non ho lavorato per meritarmeli?! O che sono unta dal Signore? E quindi i miei successi NON li ho costruiti, ma sono frutto del tuo dio?

Se avessi vinto un triliardoditrilioni, allora forse potrei sentirmi dire “Beata te”, ma con tutte le ore, i nervi, lo studio, lo stress e mille problemi di contorno costatimi per ottenere una briciola di quello che in realtà è il mio sogno, sentirmi appellare in quel modo così restrittivo e banale, che per nulla al mondo mi rispecchia, è uno schiaffo alla mia persona.

E va be‘, vorrà dire che sono una di quelle beate pronte a sobbarcarsi kg di…

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Camomillina, ora?

#21: Il preavviso

Guarda che bel cielo azzurro qua fuori, PiccolaPesteBubbonica!

Hey, Nerdy! Domani finalmente finiremo di riempire le scatole! Abbiamo ancora DUE giorni di ferie!

È tutto perfetto, studiato nel minimo dettaglio. Ogni cosa si svolge come dovrebbe, dallo smistamento del vestiario all’imballaggio degli utensili, passando per un trallallá ed un “a presto!“.

Poi l’espressione di Nerdy alle 18:00 in punto muta di netto e quello che prima sembrava uno spensierato sorriso da puer in locus amoenus, svanisce, sostituito da un feroce ghigno.

Oh amato Nerdy con paresi da Joker, cos’accade?!“, chiedo con un occhio a PPB e l’altro alla montagna di pacchi che invade casa.

La notizia quasi sembra non voler abbandonare le pallide e rabbiose labbra dell’uomo-in-arancione, per paura che il suono di quel temibile segreto possa concretizzare l’inevitabile.
Le ipotesi sono:

A. Decesso di felino
Ti è morto il gatto?
Scuote il capo.

B. Appuntamento procrastinato
Il dentista ha detto che la pulizia semestrale salta?
Di nuovo no.

C. Catastrofe naturale
Un meteorite ha colpito casa della suocera?
Ancora niente.

D. Fenomeni paranormali o incontri del terzo tipo
Gli alieni sono venuti in visita nel piccolo paesello industriale?
No, no e no!

Qualcosa però si muove, risalendo l’oscuro abisso delle interiora dell’uomo Nerd. Lui, un pezzo di protonpack in mano e uno smeriglietto nell’altra, mi guarda attraverso i suoi occhiali da saldatore con espressione immobile. Così rassegnato l’ho visto solo quella volta che eravamo in ferie e… Ohcacchio!
Sibilando striscia, arrancando tra lingua e denti, la frase che nessun essere vivente vorrebbe mai sentirsi dire.

“C O S A?!” rispondo io, armata di calzini e reggiseni appena tolti dalla fune.

Sì, avete capito bene.

Nero e Nerdy sono stati richiamati al lavoro dalle ferieper esigenze di servizio” con un preavviso di dodici ore esatte.
Mapporc

#18: Sono Vergine

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OK, OK.

Sono vergine.
E non come la Madonna (altrimenti PiccolaPesteBubbonica da che pertugio sarebbe potuta uscire?).
E non guardatemi così! Non ho mica detto che vi contagerò la mia bellezza e simpatia per osmosi, eccheccavolo.

Al contrario di tutte/i le/i vergini di questo mondo, sono disordinata, pigra e mi lascio spesso andare.
Però, però, però… Quando attacco col riordinare, organizzare e pulire riesco a sfociare nell’essere maniacale.
E guardando la TV spenta (che abbiamo quasi come soprammobile), oltre allo sfavillio, potreste cogliere la vostra immagine riflessa a colori.

Sono razionale, attorno a me vorrei solo persone concrete e sincere, ma quando sogno – e lo faccio, accidenti se lo faccio- è sempre in grande.
Adoro l’arte visiva, sono affascinata dalla vita degli artisti che sono spesso sognatori o critici della realtà, di cui colgono le ambiguità e le crepe.
Di alcuni mi spaventa (ed attrae) la spiccata sensibilità che, talvolta, scade nell’egoismo e nell’egocentrismo.
Mio padre è musicista (non di professione) e quando ho potuto ho evitato, come si scansano gli appestati, i musicisti. Sarà che ne ho incontrato di volubili e pieni di sé, ma il massimo che sono riuscita a concedere loro è un’amicizia, nemmeno così solida.
Sto divagando.

La contraddizione, l’inquietudine, la sincerità, l’onestà, il cambiamento, l’amore per lo studio mi appartengono e mi tormentano.

Penso costantemente e sto attenta ai dettagli, anche piccoli e che per altri sono infinitamente idioti.

Pretendo il giusto e solo quello che mi è dovuto.

Sono una polemica di prim’ordine. Sto imparando a smettere. Ma è un tunnel, tipo quello della ddddroga!

Prendere prendere prendere e ancora prendere. Ma anche dare e dare a braccia e cuore larghi, senza MAI aspettarmi niente in cambio.

Mi piace l‘eleganza che non sia ostentata.

Una carezza? No, grazie. Preferisco una critica che mi rimetta in discussione anche in minima parte.

Sono romantica in modo anormale.
Trovo più intima una serata in pijiama di fronte ad un film horror (così che possa importunare Nerdy deliberatamente), che una cena a due in un ristorante, in mezzo a centomila sconosciuti che blatterano sulle loro cose. Con un questo sto non intendo dire che non mi piace mangiar fuori, solo che non mi pare poi così romantico.

Cuore =/= amore
Amore = testa, impegno, pazienza, progetti, liti, rappacificazioni, coccole, comprensioni e, perché no, perdersi -pur stando insieme- per ritrovarsi e tante altre cose.

Non so con quali segni la vergine non vada d’accordo, sicuramente so che Toro non è esattamente affine perché si muove in maniera differente (non chiedetemi quale).

E sto con un toro. Toro, capito?

#16: Roma capoccia der monno ‘nfame

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Roma, ah Roma!

Con questa, è la quinta volta che la visito. E, anche con tutte le sue impalcature, ristrutturazioni, finti centurioni e gente che, in pieno Agosto, ha voglia di scendere dalla macchina a semaforo rosso per gridare “…’tacci tua!” al guidatore davanti,  rimane sempre bellissima.

Ogni strada, opera, edificio trasuda storia. Tutto, anche una cosa capitata lì per caso, guadagna immediatamente fascino e bellezza.

OK. Va bene. Sono stata sedotta da “la Grande Bellezza“, dalle scenografie e da alcune verità buttate lì quasi involontariamente.

Stavolta la mia digressione mentale ha avuto origine guardando l’insegna di una strada, che recitava “via dei due macelli“.
Chissà perché si chiamava così!
C’erano effettivamenti due macelli? Magari in contrapposizione tra loro? O ognuno si occupava di cose diverse?  A che epoca risale?

Ci sono migliaia di turisti assiepati all’ombra contro i muri oppure camminano per le strade oppure sono in coda e aspettano il proprio turno per visitare il Colosseo. Tutti bevono, si sventolano con ventaglietti di fortuna e  stanno sotto ombrellini di carta in stile giapponese. I giapponesi, per tutta risposta, hanno delle visiere da far invidia ad ogni buon giocatore di baseball americano e gli americani  sfidano il sol leone con indosso solo una maglia, un paio di shorts, scarpe sportive e la loro pelle (bianchissima e riflettente). Non vedo tedeschi all’orizzonte o, se presenti, sono ben camuffati tra gli altri, rinunciando all’immancabile e sempreverde calzino bianco. In compenso c’è abbondanza di pakistani ambulanti che, alla modica cifra di un euro (due euro negli stand), ti vendono acqua ghiacciata per la strada.
Ho mangiato la frutta più cara della storia! Pesche noce a 9.90€ il kg!
Ho pagato 3 euro e rotti per una mela, una pesca ed una banana!
Pakistani affaristi!

I tassisti guidano come se sciassero, conoscono poco il pedale del freno e scivolano via sopra le strade ora evitando pedoni, ora zippando un semaforo rosso per meno di un pelo.

Ci sono le cicale che cantano nel cuore di via dei fori imperiali, c’è un buon profumo di resina, ragazzetti francesi che giocano a pallone e pochissime macchine in giro.

Quando il Sole si abbassa decido di portare Nerdy da “Storia e Magia“, proprio vicino a città del Vaticano.
Lui, che è l’uomo-in-Arancione più nerd dell’Universo, ne rimane incantato.

Ebbene, cara Roma, non esiste persona che ti abbia vista e non abbia scritto della tua meravigliosa magia. Ora anche Nero l’ha fatto!

#15: Il brufolo sul naso

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Vi è mai capitato che la vostra pelle vomitasse fuori qualcosa di davvero abnorme in uno dei momenti meno opportuni della storia?

Che ne so: avete una gara di ballo, uno spettacolo teatrale, un’esibizione in prima persona, vostr* figl* fa la recita/si diploma/discute la tesi di laurea? Voi dovete laurearvi? È il giorno del vostro matrimonio? Dovete incontrare il vostro nuovo datore di lavoro? Presenziare ed intervenire ad un convegno?
Bene, questo è il momento.

Qualcosa spunta prepotentemente fuori dai vostri pori. Dapprima appare come un innocuo puntino rosso (“figurati, ora mi idrato per bene e via la macchia!”), poi diviene sempre più presente, gonfiandosi in modo esponenziale ed inesorabile, ora dopo ora.
Quando è ormai tendente al bianco, l’80% di noi viene colto dalla magnifica idea di schiacciarlo senza pietà (“Tu sarai mio! Ahr ahr ahr!”), finendo col peggiorare la situazione.
Allora, armati di fazzoletto, studiamo attentamente il nostro riflesso che ci guarda (in cagnesco) di rimando dallo specchio, apprestandoci, repulsione a parte, ad aggredire il nemico purulento che infesta il nostro volto.

L’antagonista sembra ponderare preventivamente il piano di battaglia, scegliendo il punto peggiore sul quale mostrarsi orgoglioso e soddisfatto: la punta del naso [oppure la guancia oppure il mento o, ancora, il centro della fronte (per dare un tocco di hare krishna al nostro provato aspetto)].

Ovviamente i risultati sono devastanti. Otteniamo esattamente l’opposto di quel che avevamo in mente: ora al posto del puntino bianchiccio, compare un tondo frastagliato, vermiglio ed infetto, accompagnato una brutta unghiata.
Succede poi che alcuni tamponano l’obbrobrio con disinfettanti, alcool o cicatrene, altri continuano a torturarsi finché la ferita non raggiunge almeno la circonferenza di un polpastrello!

Alzo le mani! Confesso! Appartengo alla seconda specie.

Ma perché questi pensieri interamente dedicati alle imperfezioni cutanee?

Nerdy e Nero hanno un appuntamento importante. Assieme a loro ci sarà anche Potente, il brufolo impertinente.
Sulla punta del naso.
Di Nero.