#46: Riguardo alle malattie mentali

Esco di casa in pijiama per andare a recuperare il kindle dall’abitacolo della mia autovettura, accompagnata da un inconfondibile sottofondo meccanico, il rombo sordo dei motori industriali che, instancabili, macinano olio, day-in-and-day-out, rompendo il silenzio di questa notte di tormenti.
Le finestre si spengono sulla via principale del paese, il che mi evoca lesto un umore atrabiliare, “così tra questa immensità s’annega il pensier mio“…
E il naufragar, onestamente, è dolce come un sorso di acido cloridrico a freddo – quello che ti manda all’ospedale perché eri convinto fosse acqua.

Per chi ha la testa incasinata come me è difficile fermarsi e valutare.
Inspirare ed espirare.
Ricordarsi di non essere sopra un treno che va a 300 km/h, ma di muoversi a piedi, con delle fantastiche Vans, la cui tela s’adorna d’una morigerata fantasia raffigurante una castigatissima Princess Peach contornata di stelline psicotrope dell’invincibilità – e Mario bestemmia contro quel lestofante di suo fratello Luigi che, nonostante in tutta la saga sia stato solo una spettrale comparsa, riesce pure a sottrargli la donna dei suoi sogni, lasciandolo a bocca asciutta, per non dire altro.

La testa incasinata, argomentavo, non aiuta nelle scelte quotidiane, né a lungo termine, né estemporanee; ogni decisione diventa un’impresa epocale che grava sul cuore, peggio dell’anello del potere che Frodo è costretto a sobbarcarsi, smazzandosi tutta la strada che, dalla Contea Baggins, conduce dritta dritta al Monte Fato. A piedi. Senza scarpe. Con Gollum che gli sfrangia le pudenda ogni tre per due. E Sauron che con il suo occhio vulvico gli strizza il cuore e la mente anche a distanza di centinaia di migliaia di miglia. E mettiamoci in mezzo anche la storia d’amore scassaminchia tra Arwen e Grampasso. E gli Hurukai. E tutto il carrozzone di Elfi, Maghi e personaggi insopportabili, Tom Bombadil in prima linea.

Nell’immaginario comune la persona affetta da disturbi o disordini mentali si tramuta magicamente in un mostro privo di ogni capacità di discernimento razionale, incapace, inaffidabile. In realtà esistono una moltitudine di patologie che comprendono ANCHE tali specificità – mostri a parte – ma il più delle volte si tratta di casi limite.

Quando i profani sentono parlare di “instabilità“, ti vedono già girare tra i corridoi imbiancati di un reparto Psichiatrico, con indosso una bella camiciola candida, munita di eleganti cinghie e lacci regolabili, one size fits all.

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Eppure non è esattamente così che funziona.
L’instabilità affonda le sue robuste radici nel terreno fertile dell’infanzia, quando mamma e/o papà non riconoscono le nostre esigenze primarie: amore, validazione emotiva, considerazione positiva. La discrepanza tra la percezione individuale e quella genitoriale comporta un’incoerenza di fondo che può sfociare, anche in età adulta, in devianze, dipendenze, alterazioni psicologiche di lieve, media e grave entità.
C’è chi si accorge di avere un problema, chi invece lo cova inconsapevolmente, chi vuole smettere di soffrire ma non sa da dove cominciare, chi decide di rivolgersi ad uno specialista.

Io faccio parte dell’ultima schiera, ovvero quelli che hanno riempito il sacco sin sopra l’orlo con sofferenza e rabbia, tanto da essere costretti ad appellarsi alla mano salvifica di uno che di cervelli ne capisca effettivamente qualcosa.

I veri pazzi, sussurra qualcuno, affermano di non esserlo.
C’è una buona speranza, dunque, che nel mio cammino verso il Monte Fato riesca anche io ad incontrare un saggio come Gandalf, in grado di indicarmi la via e che io stessa, con il solo tripode delle mie forze, riesca infine a gettare tra le fauci infernali tutto il nero che mi fa annaspare.

anello del potere

(ma quanto è figo l’anello del potere, eh? Dopo quelle due o trenta gocce, poi, ancora deppiù)

#45: Altro giro, altra corsa

Con la musica nelle orecchie imbocco il solito gate, indossando delle sobrie scarpe cromate che riflettono di luce propria, mentre attorno a me una marea di ragazzini tedeschi dell’età di PPB – che ora dovrei chiamare PAB, ovvero Piccola Adolescente Bubbonica, il che calzerebbe alla perfezione con la costellazione ormonale cutanea in germinazione, segno distintivo del suo passaggio da bocciolo ancor chiuso a fiore acerbo- che tornano, tra sandaletti e cozze di piede allevate accuratamente sin dalla nascita, in patria con gran ricarico di grana padano ed endorfine smollate a secchiate da Sole, vento, vino e trallallà (si spera).

Ma dicevo, mi piazzo sul sedile e per ammazzare il tempo, una volta preso quota dopo il decollo, decido di concedermi una tazza di prelibato caffè finto-americano, dal retrogusto di terra fresca di Hiroshima del secolo scorso, e di leggere qualche riga di un libro di Agatha Christie, che male mai ha fatto, il cui pezzo forte è decisamente Poirot che risolve a mezzo di sofisticatissime tecniche di indagine (aka: occhiometro) qualsiasi caso gli passi sotto il nasone; è proprio un gran figaccione supersmart che se la suona e se la canta in totale solitudine, sollazzandosi del suo medesimo acume sferzante.

Di nuovo sull’aereo, rimembravo, a cambiare Stato e non cielo, a mestare con più impegno il brodo dei pensieri ed altre solite menate da descrivere romanticamente, come semper accidit quando, dopo 19 ore sveglia, gli arcobaleni di unicorni si sostituiscono al mio solidissimo raziocinio.

Di. Nuovo. A. Cercare. Qualcosa. Che. Non. So. Cos’è. (ched’è)

Il mio legame con l’aereo è intriso di quella dicotomia catulliana di Odi et Amo, dove tutto è molto bello e profondo, ma mette alla prova l’elasticità dei miei nervi.

Forse dovrei chiamare questo dualismo con il suo vero nome: bipolarismo.

Anyways.

L’aereo arriva in fretta – o forse ho solo l’impressione che sia così, dato che mi addormento, ormai puntuale come i treni di quando-c’era-lui, ogni santissima volta – e vengo immediatamente abbordata da un organizzatore di eventi culturali, vestito da hip-hip-hurrà che Patty Smith in confronto sembrerebbe una principiante nel genere, con accento alla Manuel Agnelli della poratchitudine, irrompendo, dal nulla cosmico più profondo, al caldo interrogativo di “smezziamo un taxi?” – il pubblico da casa ha suggerito di rispondere “No,” col 99,9% dei voti ed io non ho davvero potuto sottrarmi alla sua cortese raccomandazione, senza contare l’intervento prontissimo della back-voice nella mia mente che sibilava di non accettare caramelle dagli sconosciuti, figurati un fifty-fifty di condivisione auto.

Declino cortese il gradito invito e tento di defilarmi, ma nulla. Sorbisco con interesse moderato, quasi da encefalogramma piatto, tutta una serie di argomentazioni che ora mi sfuggono, un peccato non poterle riproporre come avviene con la lasagna del pranzo di domenica.

A salvare la nostra beniamina, giunge da un punto indistinto ad ovest (?) un un losco figuro barba-munito che, con estrema noncuranza, estrae l’arma segretissima di distruzione di massa, la fatality che nessun uomo vorrebbe mai provare sulla propria pelle, quella che farebbe dilatare il tempo e sublimare lo spazio: l’abbraccio coeur-á-coeur.

Flaviano, l’uomo dei drappi floreali e del peace-and-cultural (?), diviene un pallido spettro che svanisce al primo raggio di luce irradiato all’alba.

Ed in effetti il cielo sopra la città degli Orsi è baciato dal Sole.

Da questo punto in avanti la storia assume una piega ed una forma ben diverse da quel che mi aspettavo. Sebbene mi verrebbe da citare in eterno questo trittico di giornate come “l’umiliazione di Canossa“, ma solo per l’uso sostanzioso di ginocchia supplici e per similitudine della durata in giorni della stessa, mi limiterò invece a ricordarlo così com’è ovvero una corsa rampante nel bel mezzo del cammin di nostra vita, con selva oscura annessa e gironi d’inferno abbastanza succulenti, quanto dannatamente pericolosi.

Cosa ho imparato, dunque?

1. Al cuor non si comanda, ma alla forchetta anche meno;

2. Quei 2/4kg o li perdo o non diverrò mai più un essere vaj-munito appetibile;

3. Esistono muscoli del corpo che non sapevo di avere, ma forse anche pareti;

4. Non sono l’unico esemplare di umano a non saper vomitare;

5. Ci sono persone che, nel loro buio, hanno più luce da dare di quanto possano anche solo lontanamente immaginare;

6. È ora che torni in psichiatria 2, con Carla che mi chiede soave “esattamente, che emozioni hai provato? Credi di poter sopravvivere senza annegare nel lexotan?”

7. Berlino è bellissima ed ogni volta un suo freak mi si deposita dritto dritto dentro l’heart.

Sono le 7, caffè?

#44: Life comes full circle

full circle

I’ve no idea where to start, but…

Sono tornata da cinque mesi nella Terra delle banane e se inizialmente il tepore del Sole, la vicinanza coi parenti ed il legame con gli amici sembrasse rinfrancare il mio animo avvilito, ora mi sembra di vivere in una sorta di Terra di Mezzo, dove tutti sono ipertesi verso se stessi, che sebbene non ti vedano dall’alba dei tempi l’unica cosa che sanno dirti è “sei ingrassata, sei invecchiata“, inframezzando tali giudizi – che ogni donna ama follemente ricevere – da incisi egoriferiti, autoreferenziali e egoistici “io ho fatto, io ho detto, io ho mangiato, io ho visto, io ho viaggiato“. Come on guys, gimme a break!

Devo dirlo, me ne sono andata dall’Italia sbattendo la porta: non vedevo l’ora di liberarmi di quel *  lavoro, di quella * famiglia, di quelle * persone, di quel * paese, di quel * di tutto (sostituire l’asterisco con imprecazioni randomiche e succulente).
L’Atlantide dei poveri era per me una “palla del male”, così come lo erano i suoi abitanti di mentalità pressapoco ravvicinata a quella dell’australopithecus afarensis, che di opponibile aveva solo il pollice.

Tre anni all’estero sono praticamente sublimati.
Ho fatto poche foto, letto pochi libri, visto poche città, scritto poche parole.

Ma con la stessa fretta di quando ho preso l’aereo per arrivarci, lì nella terra degli Yankees, sono infine andata via.
Ho lasciato il New England con la sensazione di avere lo stomaco vuoto: non ero sazia a sufficienza delle meraviglie del Nuovo Mondo.

Life comes full circle, direbbe la mia saggia amica T.

Scappi da una cosa e questa ti insegue. No. Matter. What.

Sull’aereo di ritorno ho viaggiato a fianco a Nerdy, che ora fa parte della mia vita in modo alternativo, e la PPB in fase adolescenziale, quindi incazzata abbestia per la dannata scelta presa dall’avventata madre (cioè io), che di Nero, in quel dato momento, non aveva soltanto il nomignolo.

Ho deciso di andare via? Ni.
Diciamo che il destino si è frapposto tra me ed i documenti che mi avrebbero permesso di stare definitivamente lontana dall’Italia e, perché no, “godermi” tutto il mandato del biondone on charge… Eeerh… Ma sopratutto di quelli che gli succederanno (se lui non farà un colpo di stato prima, s’intende, autoproclamandosi Imperatore d’Occidente, come nelle migliori trame d’epoca Romana).

Durante questo tempo ho preso molti aerei, nella speranza di dimenticare le brutture e acquisire nuovi pezzi da inserire nel puzzle che è la mia imprevedibile vita.
Ho tentato di toccare nuove anime, di riempire ogni mia cellula della bellezza emanata da altri esseri senzienti, ma, at the end of the day, sono qui da sola a fissare lo schermo, cercando di dare un significato a quanto sto vivendo, chiedendomi perché talvolta i ricordi brucino come sigarette spente sulla pelle nuda, aspettando risposte che non arriveranno, almeno non ora.

Life comes full circle, direi alla me stessa di quattro anni fa, che pensava di sfuggire a se stessa solo cambiando continente.

Bagno con la lingua l’indice e volto pagina, per l’ennesima volta, dando inizio ad un nuovo capitolo.
(… eh no, mi inzacchero solo metaforicamente le dita di saliva. I miei libri sono INTONSI… Hanno solo delle simpatiche orecchiette da gatto, un aspetto vissuto!)

#43: Il diario di una donna ansiosa

L’ansia è come una mano nera che ti soffoca, opprimendo il petto, mozzando il respiro, scoperchiando il tombino delle tue paure recondite, incuneandosi in qualsiasi anfratto del tuo essere, fino ad una completa paralisi.

Ecco, paralizzata è come mi sento.
Vorrei solo piangere tutte le lacrime che mi sono rimaste e farla finita ora e subito, ma con quale coraggio?
Mi guardo allo specchio e nei miei occhi riesco a scorgere un lago infinito di angoscia. E’ buio e non c’è nemmeno una falce di luna ad illuminare il mio cielo.

I mostri stanno risalendo il pozzo, aggrappandosi alle asperità delle pareti. Li sento grattare con un unghie sordide l’esofago, al ritmo delle pulsazioni cardiache che aumentano ed echeggiano in modo eccessivo dentro le orecchie.

Punti interrogativi costellano il panorama corvino dei miei pensieri e sembrano croci bianche, epitaffi senza voce, con un carico troppo opprimente da consentire loro d’ottenere una risposta.
Passeggio nel mezzo e difficilmente riesco ad orientarmi dentro l’enorme caos che mi attanaglia.
“Come stai?”, il vuoto.

Allora, per scongiurare la follia, mi appello alla parte sana di me stessa, quella spensierata e felice, in grado di ironizzare anche sulla più bieca delle situazioni, ma deve essersi presa una lunga vacanza dalla sua gemella cattiva che, strisciando sibilante, si è seduta sul trono e con lo scettro nero dileggia quel poco che rimane della stabilità su cui a lungo ho lavorato.

“Tu non sei mai stata felice”. E hai ragione, non lo sono mai stata.
“Hai sempre cercato quel che non avevi, senza mai guardare alla bellezza delle cose essenziali di ogni giorno”. Mea culpa, mea maxima culpa.

La vita è così, imprevedibile e selvaggia. Un giorno ti porge un piccolo raggio di sole, poi, alla stessa velocità con cui ha donato, ti toglie il pavimento da sotto i tacchi.

E cosa puoi fare, se non precipitare?

#42: Kitchen Confidential di Anthony Bourdain


Questo libro, questo libro… Questo libro mi ha annoiata a morte, ad eccezione di qualche simpatico aneddoto lasciato qui e là, così per puro caso. 

Non vedevo l’ora di terminarlo e non per vedere dove andasse a finire, piuttosto per l’esigenza impellente di passare a qualcosa di bello, coinvolgente.

Anthony Bourdain è un cuoco-scrittore americano, che nel suo Kitchen Confidential tenta di rappresentare il mondo della gastronomia come un enorme vascello di pirati brutti, cattivi, sporchi e tossici in modo completamente esaltato ed affettato. Le cucine vengono dipinte come inferni danzanti (il che rispecchia il vero), capitanati da folli Ammiragli coi denti marci e con la fiatella di whiskey che impesta l’aria sin dalle prime luci dell’alba.

Vi è un impasto totale di stupefacenti, alcol, mafia, scopate sui luoghi di lavoro – meglio se sopra materiale deperibile-, sozzura e ciarpame. 

Non essendo uno scrittore, si avventura in una catena inutile di dettagli e sorvola invece su impressioni/ragionamenti non evidenti che abbisognerebbero di delucidazioni.

In un totale e confortevole onanismo si bulla di quanto la sua carriera sia stata dura, a tratti schifosa e di quanto sia dovuto divenire spietato e senza cuore, ma con un cuore. Sì, esattamente, il libro è trapunto di contraddizioni, smentite e noiosi salti temporali,  del tipo “quella volta al campo della banda…“.

Chiuso il libro la sensazione è stata quella del dolorosissimo postpartum, oltreché di LIBERAZIONE totale. 

Non posso dire che il frasario e i vocaboli altisonanti utilizzati non siano talvolta in completa dissonanza con il gergo, ma questa, almeno, è stata una sorpresa piuttosto piacevole.

Lo avessi letto a vent’anni forse l’avrei apprezzato, ma oggi lo trovo pretenzioso e ostentato. 

La frase più stupida che abbia letto riguardava il fatto che un cuoco che macella un’anatra ascoltando i Sex Pistol mostri alla sua brigata la propria posizione di potere e autorità… Cioè, solo perché i Sex Pistols erano dei tossici – e tu pure-, altri esseri umani, tuoi sottoposti, dovrebbero sentirsi intimoriti dalla tua mannaia che batte al ritmo delle loro canzoni sopra il cadavere di un pennuto di cinque kg? Che pateticità, amici.

Giusto un appunto: non ho nulla contro i Sex Pistol ed i i tossicodipendenti, ma contro gli stereotipi che questo libro vuole far passare per simpatici e decorativi, quando in realtà mettono in risalto soltanto il mare di cliché nel quale l’autore sguazza bellamente.

Mi è piaciuto? Su goodreads gli ho dato due stelle, essendo generosa, ma la realtà dei fatti è che non mi ha entusiasmata.

Lo consiglio? Nì. Sicuramente per gli amanti del settore culinario, per chi comprende i termini tecnici senza doverli cercare su wikipedia o sulla Treccani, questo libro potrebbe essere una chicca da aggiungere a ben più celebri romanzi sul cibo e sulla ristorazione.
Peace out!

 

#41: Sibilla Aleramo e “Una donna”

In questa giornata uggiosa e fredda di Gennaio ho deciso di dedicarmi alla “recensione” di un libro che, se non avessi fatto parte del book club Pasionaria, non credo avrei mai letto.

È stato però una piacevole sorpresa, per cui è bene parlarne.

Premetto che negli anni mi è capitato di essere stata chiamata “femminista” in modo dispregiativo da più di un uomo, specialmente in ambito scolastico.

E sì, perché mai una donna ha ardito tanto nei miei confronti (a parte chiamarmi puttana alle spalle, ma quello lo fanno anche gli uomini).

Non ho mai sentito di appartere al gruppo femminista per vari motivi, primo fra tutti il loro modo, spesso aggressivo, di trattare col resto del mondo.

Poi un giorno mi sono detta che forse se sono tanto incazzate, ‘ste donne, un motivo valido lo avranno pure. Andando a ritroso nella storia spiccano pochissimi nomi femminili a differenza degli stuoli di medici, pensatori e filosofi  che saturano il panorama culturale.  Non credo, anche guardando molte di quelle che conosco, che le donne di allora fossero meno intelligenti di quanto non lo siano quelle che vivono in tempi moderni, o che mancassero di qualche qualità fisica o cognitiva tale da inficiare la validità del loro pensiero critico. Più semplicemente, l’accesso agli ambienti scientifici, filosofici e culturali veniva loro precluso per ragioni di stampo sessista.

Nella scala sociale la donna era collocata un gradino sotto l’uomo, perché ritenuta inferiore, debole e inadatta ai ruoli di potere.

La società occidentale ha sempre delegato alla famiglia carichi onerosi, come l’allevamento e l’educazione primaria dei figli, affidando distintamente la responsabilità della prole alla madre e quella del mantenimento economico al padre.

L’uomo, grazie al salario, era “libero” ovvero aveva la possibilità di spendere il danaro come meglio credeva, a volte in modo egoistico, altre per le necessità della famiglia. Alla donna talvolta veniva concesso di amministrare le entrate, ma in più di un caso non lavorava ed era quindi dipendente dal marito; le sue necessità venivano scavalcate da altre priorità, spesso legate al benessere dei figli.

In una società in cui l’uomo è “forte” e la donna ha un valore infimo, le violenze a qualsiasi rappresaglia o dissenso manifestato tra le quattro mura domestiche sono all’ordine del giorno.

Ed eccoci arrivare al dunque: “Una donna”. Questo libro viene considerato uno dei capisaldi della letteratura femminista, poiché descrive, talvolta con caratteri irreali e idealistici, avvolti in spirali di anacronismo, l’intera vita di una donna, Modesta, che di modesto non ha nulla. 

La trama si svolge in un vortice di eventi, dipinta sopra un magnifico sfondo siciliano Novecentesco, secolo ricco di avvenimenti che sconvolgeranno la storia mondiale e la storia delle donne italiane.

I temi principali sono la libera sessualità,  l’amore, la prole, l’indipendenza, il lavoro intellettuale femminile e l’eterno dilemma di Eva contro Eva.

Senz’altro da leggere e da “sognare”.

#41: Sibilla Aleramo e “Una donna”

In questa giornata uggiosa e fredda di Gennaio ho deciso di dedicarmi alla “recensione” di un libro che, se non avessi fatto parte del book club Pasionaria, non credo avrei mai letto.

È stato però una piacevole sorpresa, per cui è bene parlarne.

Premetto che negli anni mi è capitato di essere stata chiamata “femminista” in modo dispregiativo da più di un uomo, specialmente in ambito scolastico.

E sì, perché mai una donna ha ardito tanto nei miei confronti (a parte chiamarmi puttana alle spalle, ma quello lo fanno anche gli uomini).

Non ho mai sentito di appartere al gruppo femminista per vari motivi, primo fra tutti il loro modo, spesso aggressivo, di trattare col resto del mondo.

Poi un giorno mi sono detta che forse se sono tanto incazzate, ‘ste donne, un motivo valido lo avranno pure. Andando a ritroso nella storia spiccano pochissimi nomi femminili a differenza degli stuoli di medici, pensatori e filosofi  che saturano il panorama culturale.  Non credo, anche guardando molte di quelle che conosco, che le donne di allora fossero meno intelligenti di quanto non lo siano quelle che vivono in tempi moderni, o che mancassero di qualche qualità fisica o cognitiva tale da inficiare la validità del loro pensiero critico. Più semplicemente, l’accesso agli ambienti scientifici, filosofici e culturali veniva loro precluso per ragioni di stampo sessista.

Nella scala sociale la donna era collocata un gradino sotto l’uomo, perché ritenuta inferiore, debole e inadatta ai ruoli di potere.

La società occidentale ha sempre delegato alla famiglia carichi onerosi, come l’allevamento e l’educazione primaria dei figli, affidando distintamente la responsabilità della prole alla madre e quella del mantenimento economico al padre.

L’uomo, grazie al salario, era “libero” ovvero aveva la possibilità di spendere il danaro come meglio credeva, a volte in modo egoistico, altre per le necessità della famiglia. Alla donna talvolta veniva concesso di amministrare le entrate, ma in più di un caso non lavorava ed era quindi dipendente dal marito; le sue necessità venivano scavalcate da altre priorità, spesso legate al benessere dei figli.

In una società in cui l’uomo è “forte” e la donna ha un valore infimo, le violenze a qualsiasi rappresaglia o dissenso manifestato tra le quattro mura domestiche sono all’ordine del giorno.

Ed eccoci arrivare al dunque: “Una donna”. Questo libro viene considerato uno dei capisaldi della letteratura femminista, poiché descrive, talvolta con caratteri irreali e idealistici, avvolti in spirali di anacronismo, l’intera vita di una donna, Modesta, che di modesto non ha nulla. 

La trama si svolge in un vortice di eventi, dipinta sopra un magnifico sfondo siciliano Novecentesco, secolo ricco di avvenimenti che sconvolgeranno la storia mondiale e la storia delle donne italiane.

I temi principali sono la libera sessualità,  l’amore, la prole, l’indipendenza, il lavoro intellettuale femminile e l’eterno dilemma di Eva contro Eva.

Senz’altro da leggere e da “sognare”.

#40: Avevano spento anche la luna – Recensione Libro

Oi, Nottambuli!
Non che legga un libro all’anno, però ci manca poco.
Mi sembrava sempre di non avere abbastanza tempo, abbastanza voglia, abbastanza ispirazione, abbastanza… AH! Tutte scuse, confortevoli, invitanti, profumate SCUSE.

no-excuses

Leggere fa bene, come mangiare! Cibo per l’anima!

Mi sono improvvisamente resa conto di aver letto un sacco di libri interessanti e di non averne parlato con nessuno, a parte Nerdy che, diciamocelo, trova il mondo di carta ed inchiostro davvero poco affascinante.
La sottoscritta, però, è ghiotta di castelli cartacei, contornati da merlature di lettere e racconti che sussurrano storie fantastiche, porte istantanee per mondi lontani o vicini, scorci poetici e crudi di vita d’altri. Cosa c’è di più bello di un libro (scritto bene, eh!)?
Va be’, la cioccolata calda che l’accompagna, il camino dentro cui la legna ardente scoppietta allegramente e la neve che contorna il davanzale esterno della finestra… E proprio parlando di neve mi sovviene il libro di Ruta Sepetys, “Avevano spento anche la luna”. Sfortunatamente non posseggo il tomo, ma ho la versione ebookesca, che posso trasportare con me ovunque, grazie al kindle (ah, benedetta invenzione).

“Avevano spento anche la luna” è ambientato negli anni Quaranta del Novecento, in Lituania, terra oppressa dalla morsa sovietica e che verrà, in seguito, invasa dai nazisti.
Il regime stalinista fu capace di instaurare un clima di terrore ed asservimento della popolazione alla macchina statale aberrante e priva di compassione verso l’essere umano.
Se già da almeno un decennio la Russia dovette confrontarsi e piegarsi alle dure metodologie che il Partito utilizzava impunemente per guadagnarsi il rispetto e la cieca obbedienze, come l’eliminazione di elementi scomodi, spesso eruditi e intellettuali o personaggi di spicco che, ad esempio, ricoprivano posizioni di potere – alte cariche militari, politiche – in Lituania, Lettonia ed Estonia, sebbene vivessero in un condizioni tutt’altro che allegre, non avevano ancora subito alcun mazzolamento pubblico, ma forse, ipotesi più probabile, le sparizioni erano iniziate in sordina, senza clamore e la gente poteva solo sussurrare i propri dubbi, le proprie inconfessabili incertezze sullo spadroneggiare cavalcante dei russi.

Il racconto inizia all’interno dell’appartamento della famiglia Vilkas: Lina, giovane artista lituana, viene deportata assieme a sua madre, Elena, e suo fratello, Jonas, a seguito dell’irruzione notturna dell’NKVD (che poi diverrà KGB). Il padre di famiglia, Kostas, rettore universitario a Kaunas, viene separato dalla famiglia prima dell’inizio della storia, ma la sua presenza permeerà tutta la lettura, e la suggestione del ricordo paterno si rafforzerà in seguito alll’incontro lampo avvenuto durante il viaggio sul treno-bestiame, diretto verso la “cooperativa agricola” comunista. L’uomo, seppur tumefatto, riuscirà ad infondere nell’animo ribelle della figlia quindicenne il coraggio necessario per affrontare la terribile avventura nei campi di lavoro russi.
Molti dei personaggi che compaiono all’inizio del racconto andranno man mano scomparendo, perdendosi drammaticamente nello scorrere rapido delle pagine. Momenti del presente e ricordi del passato si animano, in un oscillare rapido, sullo stesso piano narrativo, in un arazzo doloroso che sovrappone il tepore della casa lituana con la durezza del paesaggio della Russia asiatica, sui gelidi Altai, ed in seguito della Siberia, a Laptev nel Mar Glaciale Artico, dove il Sole tramonta per giorni ed il freddo è capace di solidificare il fiato e fiaccare il corpo del più stoico dei lavoratori.
Le emozioni crude e controverse, come l’odio, il rancore, la paura, la pietà e la compassione vengono descritte con naturale delicatezza dalla giovane Lina, stretta nei suoi sottili cenci, fragile nel fisico ma forte e determinata nel perseguire l’unico obiettivo della sua incredibile e dissestata vita: tornare a casa sua, in Lituania.
L’amore, una parentesi dolorosa e commovente, s’intreccia con semplice autenticità al filo narrativo.

Lo stile piano, disadorno, con dialoghi semplici ed immagini efficaci, consente da subito un’immersione completa nella trama. L’altalena tra passato e presente, così come la narrazione in prima persona, ci consente di inabissarci nell’intimo della protagonista, con l’opportunità di identificarcisi con facilità.

Mi è piaciuto? Sì!
A chi lo consiglio? A tutti coloro che non hanno mai letto nulla sui gulag, sull’agghiacciante realtà del regime stalinista e sui drammi della deportazione nell’est europa.

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#39: la maledizione

Vorrei non essere nata con la maledizione di poter sentire anche quello che non viene pronunciato, di poter percepire quando non piaccio a qualcuno nonostante i miei sforzi di  agire in modo carino, mettendoci dentro tutta la mia energia e buona volontà.

Vorrei non essere nata con la maledizione di essere al posto giusto ma al momento sbagliato, di non essere mai abbastanza -mai abbastanza isolana, mai abbastanza italiana, mai abbastanza all’altezza, mai abbastanza simpatica, comprensiva, compiacente, interessante.

E’ la storia della mia vita che si ripete all’infinito. E’ la maledizione che si avvera e si rigenera, nutrendo se stessa, nei secoli dei secoli (amen).

Mi sembra di essere scivolata dentro un buco nero senza fine e senza senso che, giorno per giorno, strappa un pezzo della mia anima e lo fa scomparire in un baratro oscuro ed inaccessibile.

Mi sento persa dentro questa valanga di delusioni, lacrime, dispiaceri e rabbia.
Rabbia di non essere accettata dalle persone che vorrei vicino, rabbia di non essere amata come credo ogni essere umano in questo mondo voglia e meriti, rabbia di venire esclusa, di non aver abbastanza coraggio per cambiare una volta e per tutte le ingiustizie che ho subito e che, in modo silente, continuo a subire.

Non ho chiesto quel che mi sta capitando, non lo volevo e non lo voglio. E mi fa male.

Chi non è mai stato lontano dal proprio Paese, dai propri affetti, chi non ha mai dovuto confrontarsi con persone a cui non interessa sapere, né – figurarsi- comprendere, quanto sia difficile vivere a mille miglia dal tepore famigliare, chi è chiuso dentro i suoi schemi mentali, ricamati di gelosia, avidità,  menefreghismo, altezzosità e maree di capricci, pensa solo ed esclusivamente a sé, senza andare oltre la punta del proprio naso nemmeno di un piccolo, insignificante millimetro.

In mezzo al mio petto sento solo un gran vuoto, anche se accanto a me ho le due persone che amo di più al mondo.
E’ come se la foresta rigogliosa dei miei propositi stia lasciando spazio ad un deserto roccioso, arido e misero come non è mai stato prima d’ora.

La vita mi sta dando una lezione indimenticabile.

Davvero, indimenticabile.