#71: Mai abbastanza

Sembra andare tutto come deve, quando ciclicamente torna il baratro.

Se in precedenza vi era più luce e un minimo di equilibrio, ora c’è un’ infinita oscurità, a perdita d’occhio.

Mi sembra di essere seduta sul ciglio di un dirupo, indecisa sul da farsi: lanciarmi nel vuoto o tenere i piedi a penzoloni, con le lingue roventi di vento che mi solleticano i talloni?

Dall’altra parte del crepaccio, vedo la mia stessa immagine speculare. E quando la guardo, mi ci rispecchio, e il cuore accelera, perché quel riflesso, il riflesso di come sono divenuta, mi fa paura.

Non mi riconosco più, o forse sempre meno, tanto che sorrido solo piegando gli angoli delle labbra verso l’alto, senza peraltro provare gioia. Nessun brillio di leggerezza negli occhi, solo un manto di rassegnazione alla vita che mi passa sopra come un treno, asfaltando di fatto i miei giorni migliori, quelli in cui avrei dovuto godere dei frutti generati dai molti (e spesso ben accolti) sacrifici.

Avevo tutto l’oro del mondo tra le dita avide e l’ho devoluto al baratro, lasciando che scivolasse via, lontano da me.

Mi sento sola, quella solitudine distruttiva, che sgretola ogni parte dell’essere, portandoti a grattare il fondo con le unghie consumate, accompagnata da una voglia smisurata, quasi incontenibile, di essere amata.

Ma da chi?

Un amore utopico che ha occhi e parole solo per te. Che ti sorregge, se senti di sprofondare negli abissi, che ti accompagna nella vita, ti accetta, ti redarguisce nell’istante in cui è necessario, senza volerti rendere ridicola, infinitamente piccola e inutile. Che ti rispetta, senza metterti nella condizione di dover dubitare di sé o di te stessa, ogni volta, ogni maledetta volta.

Appunto, utopia nel mondo attuale. In fondo basta un click per entrare in qualsiasi vita, diventare clandestini. Rapporti fatti di niente, di castelli di carte, abbattuti da un culo migliore, un’estetica più soddisfacente.

Il cervello non conta più granché. Quindi cosa lo alleno a fare?

Credevo di essere diventata una persona integra, difficilmente manipolabile, ma mi sono scoperta fragile, spaventata e l’unica persona che potrebbe riportarmi sul cammino è la sottoscritta, purtroppo, ma a giorni, la maggior parte dei giorni, vedo me stessa come un essere malato, di una malattia lenta e inesorabile, a cui ho paura di affibbiare un nome.

Il tutto scaturisce dall’essere perlopiù posta in secondo piano, dal trascinare situazioni morte e sepolte nella speranza che si rianimino. Ma quando la volontà è esaurita, quando i contatti sono spezzati, come si può rinascere?

Sono sfiancata dalle accuse, dalle ipocrisie, dalle parole che mai collimano con le azioni, dal non essere mai abbastanza (mai abbastanza bella, mai abbastanza interessante, mai abbastanza colta, formata, intelligente, al passo con gli altri), di fallire spesso e volentieri nei ruoli che devo ricoprire e che mi costano una fatica infinita.

Il declino morale, dicono, ha un inizio e una fine, ma da questa mi vedo ancora ben distante: bisogna affrontare i peggiori mostri per ritrovarsi. E con questi brandelli cerco di tirar fuori quanto di bello ho nell’anima, chiedendomi se qualcuno là fuori riesca a vederlo, se si renda conto che anche io esisto. Hello?!

Da qui, orde di pensieri frastagliati, neri come gli incubi che ti fanno risvegliare in preda al terrore nel cuore della notte. E sei senza aria, senza luce, senza speranza.

Spero di non soffocare, lo spero con tutto il cuore.

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