L’uggia di febbraio colpisce ancora. Stiamo lì, alla finestra, a fissare la pioggia che cade e gonfia i rigagnoli a bordo strada.
Bellissima la pioggia, eh.
Piove, piove e lava via tutto.
Guardo la mia stanza e ho ancora sul letto regali di Natale che non aprirò mai. Stanno assiepati, nel loro imballaggio originale, pronti per essere restituiti.
Sì, è un gesto infimo. Ma serve a dimenticare ed è meglio di un rogo. Sai che peccato bruciare tutti quei bei colori?
Mi chiedo, piuttosto, quando.
Quando mi spingerò oltre questo limite?
È successo una sera di Luglio, mentre leggevo un libro, che il dubbio si affacciasse, di punto in bianco, senza essere stato interpellato. Sembrava fosse disceso dal Noûs, quella Mente Collettiva di matrice greca, che permea tutti indistintamente, una consapevolezza universale, deposito di tutto il sapere.
Il riverbero limpido di tale voce, discesa da un posto che potrei definire irraggiungibile in condizioni stabili, poneva domande che fino ad allora erano rimaste in letargo, nella loro momentanea pace dei sensi.
Quindi le opzioni sono due: o ‘sto benedetto suono nella mia testa era un qualche riflesso venefico, frutto della mia gemella cattiva che gode nell’arrovellarmi le interiora, un po’ come la cara Rize col povero Ken, o devo farmi vedere da uno bravo.
Ah, no. Ci sto già andando da uno bravo.
Ma dicevo…
Il mare era leggermente increspato per il passaggio delle navi e un velo piacevole di silenzio accompagnava le ore calde del pomeriggio.
Niente fuori posto, un panorama ordinario, familiare.
Non so per quanto tempo sia rimasta lì seduta ad ammirare il profilo della città, ma sono sicura di aver tenuto il libro tra le mani, chiuso, e di non averlo mai più aperto in seguito.
Ho camminato con un punto interrogativo sopra la testa per mesi, a fasi alterne – tipo insegna al neon, ora accesa, ora spenta.
E sempre con lo stesso quesito a tartassarmi, ho vissuto una vita normale.
Alzati la mattina, mangia, studia, lavora, risolvi problemi di ordinaria amministrazione, spera di morire la notte. Insonnia.
I pensieri ciclici sono tipici delle persone spostate, dischi rotti che cercano di ripararsi in autonomia, senza peraltro ottenere risultati. Si inceppano sempre, a un certo punto, e a meno che non succeda un miracolo, un’esperienza grandiosa, smettono di propagare musica.
Nessuna transverberazione o epifania mi ha trafitto, ma sono stata fedele al roller coaster, trasportando sotto braccio il beneamato punto di domanda, che cominciava a crescere esponenzialmente e diventare pesante come una valigia da crociera.
Passa il tempo e il dubbio amletico si irrobustisce. Fa palestra due volte al giorno, sette giorni su sette, che Hulk Hogan ai tempi d’oro in confronto è una pippa colossale.
Ed ecco spuntare dalla schiena una fantastica kagune, protettiva, sì, ma dotata del tipico fascino esotico delle prigioni del Qatar, di sbarre e sangue e di “chissà che cazzo di fine ha fatto quello là“, perché si sa, in un posto del genere ci entri con le tue gambe ed esci con quelle di un altro, nella migliore delle ipotesi.
Il ponte delle incertezze è diventato una corda sottile sottile, e ora come faccio a camminarci sopra visto che indosso delle fighissime calze di nylon che non voglio si smaglino?
Ci vuole solo un po’ di coraggio per saltare.
O decidere di lasciare ad altri la scelta di recidere.
L’unica certezza è che il caffè lo voglio senza zucchero.