C’è una collina, nel mio paese, che si affaccia sul mare; un serpente di asfalto divide la spiaggia rocciosa dai campi e prosegue, giungendo ad un sentiero sterrato, sino alla scogliera. Da qui si può godere del silenzio e degli aliti di vento, talvolta è persino possibile scomparire nella linea blu dell’orizzonte, dove cielo e acqua si sposano e confondono, unendo le proprie anime, una riflesso dell’altra, nella loro infinita disuguaglianza.
Le mani fresche incontrano l’oro delle spighe asciutte, mentre le suole affondano nel manto umido, ancora irrorato di rugiada notturna, intrappolata tra i fili d’erba in germoglio.
Cammino, penso, penso e cammino.
L’occhio si perde nei colori intensi del panorama, un ritaglio di paradiso chiamato casa. Malgrado non mi tenga più legata a sé, né l’anelito sia quello di permanervi fino alla fine del mio tempo, la terra che calpesto nasconde, nel suo buio fecondo, le mie radici più profonde, la propaggine familiare, il bulbo culturale, morale ed etico, qualcosa che nemmeno la distanza può sterpare, almeno non del tutto.
Il profumo pungente della macchia – rosmarino, mirto, elicriso, lentisco, ginepro – si amalgama con la brezza salmastra, madida e densa, il verde diventa indaco, arrotondandosi nel cerchio irregolare del magenta brillante delle bacche aspre, stemperandosi nel bianco dei fiori che volgono le loro corolle verso i raggi caldi ad oriente, terra del mattino.
A nord il Golfo abbraccia il Mediterraneo e, poco sopra, scalo visivamente la linea ondulata dei monti che adombra parte della città, poi, ancor più vicino, in questa prospettiva, il brillare eterno delle torce della SARAS, le fiamme rosse e vive che guizzano feroci verso l’aria.
Questa stradina l’ho percorsa di notte, su una macchina che non era la mia, i fanali e la polvere, il tuo sorriso, a cui ho volontariamente rinunciato, ricorda una falce di luna, barbaglio nella volta delle mie distruzioni. La pelle fresca, il pozzo fondo delle iridi appannate dal cristallo, la linea perfetta di mento, collo e clavicola, i capelli folti e scuri, dentro cui inabissare le dita, la leggerezza delle battute impastate all’ironia cinica, una lama di bisturi e nel contempo la dolcezza colata del miele.
Non posso andare avanti così, ottenebrata dalla notte del mio reame di paura. Però devo. E per farlo cammino nella mia isola.
È da poco che sono tornata, ma già penso di dover scappare.
Di cosa pensa e fa la gente, i miei compaesani che ridono di me, in barba alle mie disgrazie recenti, m’interessa poco più di niente. Non capiscono che dietro a gesti avventati, incerti e spesso incomprensibili, si cela un’anima fragile, ferita, ma in grado di sollevare un mondo sulle spalle.
L’apparenza è solo un mantello che ci rende invisibili. Ed è così che voglio essere, impercettibile, instaurando il divario necessario che mi consenta di essere integra, comportandomi come l’olio che rimane sul pelo dell’acqua, senza mai mescolarvisi, forse disgregandosi in mille ed una goccia, se scosso, ma rimanendo comunque uguale a se stesso.