#40: Avevano spento anche la luna – Recensione Libro

Oi, Nottambuli!
Non che legga un libro all’anno, però ci manca poco.
Mi sembrava sempre di non avere abbastanza tempo, abbastanza voglia, abbastanza ispirazione, abbastanza… AH! Tutte scuse, confortevoli, invitanti, profumate SCUSE.

no-excuses

Leggere fa bene, come mangiare! Cibo per l’anima!

Mi sono improvvisamente resa conto di aver letto un sacco di libri interessanti e di non averne parlato con nessuno, a parte Nerdy che, diciamocelo, trova il mondo di carta ed inchiostro davvero poco affascinante.
La sottoscritta, però, è ghiotta di castelli cartacei, contornati da merlature di lettere e racconti che sussurrano storie fantastiche, porte istantanee per mondi lontani o vicini, scorci poetici e crudi di vita d’altri. Cosa c’è di più bello di un libro (scritto bene, eh!)?
Va be’, la cioccolata calda che l’accompagna, il camino dentro cui la legna ardente scoppietta allegramente e la neve che contorna il davanzale esterno della finestra… E proprio parlando di neve mi sovviene il libro di Ruta Sepetys, “Avevano spento anche la luna”. Sfortunatamente non posseggo il tomo, ma ho la versione ebookesca, che posso trasportare con me ovunque, grazie al kindle (ah, benedetta invenzione).

“Avevano spento anche la luna” è ambientato negli anni Quaranta del Novecento, in Lituania, terra oppressa dalla morsa sovietica e che verrà, in seguito, invasa dai nazisti.
Il regime stalinista fu capace di instaurare un clima di terrore ed asservimento della popolazione alla macchina statale aberrante e priva di compassione verso l’essere umano.
Se già da almeno un decennio la Russia dovette confrontarsi e piegarsi alle dure metodologie che il Partito utilizzava impunemente per guadagnarsi il rispetto e la cieca obbedienze, come l’eliminazione di elementi scomodi, spesso eruditi e intellettuali o personaggi di spicco che, ad esempio, ricoprivano posizioni di potere – alte cariche militari, politiche – in Lituania, Lettonia ed Estonia, sebbene vivessero in un condizioni tutt’altro che allegre, non avevano ancora subito alcun mazzolamento pubblico, ma forse, ipotesi più probabile, le sparizioni erano iniziate in sordina, senza clamore e la gente poteva solo sussurrare i propri dubbi, le proprie inconfessabili incertezze sullo spadroneggiare cavalcante dei russi.

Il racconto inizia all’interno dell’appartamento della famiglia Vilkas: Lina, giovane artista lituana, viene deportata assieme a sua madre, Elena, e suo fratello, Jonas, a seguito dell’irruzione notturna dell’NKVD (che poi diverrà KGB). Il padre di famiglia, Kostas, rettore universitario a Kaunas, viene separato dalla famiglia prima dell’inizio della storia, ma la sua presenza permeerà tutta la lettura, e la suggestione del ricordo paterno si rafforzerà in seguito alll’incontro lampo avvenuto durante il viaggio sul treno-bestiame, diretto verso la “cooperativa agricola” comunista. L’uomo, seppur tumefatto, riuscirà ad infondere nell’animo ribelle della figlia quindicenne il coraggio necessario per affrontare la terribile avventura nei campi di lavoro russi.
Molti dei personaggi che compaiono all’inizio del racconto andranno man mano scomparendo, perdendosi drammaticamente nello scorrere rapido delle pagine. Momenti del presente e ricordi del passato si animano, in un oscillare rapido, sullo stesso piano narrativo, in un arazzo doloroso che sovrappone il tepore della casa lituana con la durezza del paesaggio della Russia asiatica, sui gelidi Altai, ed in seguito della Siberia, a Laptev nel Mar Glaciale Artico, dove il Sole tramonta per giorni ed il freddo è capace di solidificare il fiato e fiaccare il corpo del più stoico dei lavoratori.
Le emozioni crude e controverse, come l’odio, il rancore, la paura, la pietà e la compassione vengono descritte con naturale delicatezza dalla giovane Lina, stretta nei suoi sottili cenci, fragile nel fisico ma forte e determinata nel perseguire l’unico obiettivo della sua incredibile e dissestata vita: tornare a casa sua, in Lituania.
L’amore, una parentesi dolorosa e commovente, s’intreccia con semplice autenticità al filo narrativo.

Lo stile piano, disadorno, con dialoghi semplici ed immagini efficaci, consente da subito un’immersione completa nella trama. L’altalena tra passato e presente, così come la narrazione in prima persona, ci consente di inabissarci nell’intimo della protagonista, con l’opportunità di identificarcisi con facilità.

Mi è piaciuto? Sì!
A chi lo consiglio? A tutti coloro che non hanno mai letto nulla sui gulag, sull’agghiacciante realtà del regime stalinista e sui drammi della deportazione nell’est europa.

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