#48: Dei molti demoni (le parole che non ti ho detto)

drumset

Ricordo quando ti parlavo della mia voglia di girare il mondo.
Eravamo tu ed io, seduti a tavola dopo pranzo.
Sopra il piano di vetro ancora i piatti, i rimasugli di cibo, il bicchiere macchiato di vino sul fondo davanti a te e quello pieno d’acqua tra le mie dita.
C’era la TV accesa, a volume moderato, ma non ci curavamo molto di quanto veniva trasmesso, perché in realtà stavamo già viaggiando, senza nemmeno muovere un muscolo. Lo sai anche tu che questa è una bugia, però, perché entrambi respiravamo. Non sapevamo, o forse non ci interessava ricordare, che anche solo per riempire i polmoni d’ossigeno occorrono delle fasce muscolari toniche e funzionanti, per far vibrare le corde vocali serve che l’aria le solletichi quanto basta perché il suono si tramuti in parole, per mandare giù il vino lingua, laringe e faringe si devono accordare come gli strumenti di un’orchestra.

Le ipnotiche righe di luce del pomeriggio, ombre delle tapparelle a mezz’asta, disegnavano i nostri piedi scalzi, nelle loro fattezze uguali. Io metto una gamba dietro la tua, guarda quando sono a fianco, il mio sinistro ed il tuo destro, sembrano quelli della stessa persona! 

I libri accatastati, tra scaffali e pavimento. Storia, simbolismo, religione, sociologia e molto, moltissimo altro.
Ma perché hai regalato tutti quei dischi? E le cassette? Non abbiamo abbastanza film da guardare o più probabilmente ci servirebbe un’altra vita per riuscire a vederli tutti.

Non siamo esseri umani convenzionali; o forse lo siamo e ci siamo erroneamente convinti, per una presunzione luciferina, di essere speciali?
E’ solo il potere dell’arte, anzi dell’amore per essa, che ci fa sentire diversi, estranei.

Siamo esclusivi, perché anche quando sorridiamo io ricordo te, c’è la tua traccia di malinconia che segna il mio sguardo che, inevitabilmente, rassomiglia al tuo. Sei in me e nelle espressioni che mi accompagnano quotidianamente, ma ciò non credo possa bastare.
La tua risata riempie l’aria, mi dicevi sempre. E ti giuro, avrei riso di più se solo avessi immaginato, se per un istante soltanto avessi visto cosa ci avrebbe riservato il nostro futuro.

Ho dato importanza a così tante cose effimere, persone da salvare, chimere da inseguire; ho vissuto questa vita tampinando sogni evanescenti: per questo ti sei tanto arrabbiato quando ho lasciato la nostra casa? Perché ti ho abbandonato e tu hai sempre avuto una paura atavica della separazione, tanto da farmi una colpa della mia stessa assenza, ma chi non ha timore di restare solo sul cuor della terra?

Non abbiamo tappezzato il nostro cammino con petali di fiori profumati; quando la rabbia, la disperazione e la frustrazione ci accecavano eravamo in grado di attaccarci senza pietà, mani e unghie sfoderate, sputare fiele con lingue di serpente, squarciarci il petto e costringerci al silenzio per giorni. Ma poi, in punta di piedi, tornavamo l’uno dall’altra ad accarezzare le ferite e darci tregua, certo fino al prossimo litigio.
Ma l’amore senza una lite manca di sale, così dicevi ed io ci credevo davvero.

Non siamo stati facili, né tantomeno scontati.
Ma ci siamo amati tanto, troppo, to the bones.

A me manca il tuo coraggio. Le note che hanno scortato i giorni trascorsi assieme. La mano che stringeva il mento e asciugava le lacrime.
Alla fine il fazzoletto l’ho usato per tamponare il tuo dolore, che cadeva incolore staccandosi dalla rima degli occhi.
Papà, sono qui, respira col naso. Non devi avere paura.
Le dita irrigidite, fredde, bianche di malattia, di nervi saldati al corpo ma privi di corrente elettrica, inservibili. L’ossigeno che non basta più. Il neon blu dell’ospedale. L’odore insalubre della corsia.

Oggi la barba, domani però ti lavo la schiena, ok? Ci vediamo domani, pa’.

E’ così difficile dirti addio.

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